Bulat Okudžava, il cantapoeta
Pagine/Due libri omaggiano il «primo bardo russo». Tra canzoni e poesie Le sue liriche con la chitarra sono metafora di un mondo agognato e perduto. «Ma se non va così, se fu un’assurda sfida, che mi perdoni iddio, mio figlio mi derida: ho aperto le ali per il cielo degli umani, della speranza ho fatto il mio domani|»
Pagine/Due libri omaggiano il «primo bardo russo». Tra canzoni e poesie Le sue liriche con la chitarra sono metafora di un mondo agognato e perduto. «Ma se non va così, se fu un’assurda sfida, che mi perdoni iddio, mio figlio mi derida: ho aperto le ali per il cielo degli umani, della speranza ho fatto il mio domani|»
Essere poeti in Russia è più che essere poeti, diceva Evtušenko, il poeta e romanziere russo.
Le grandi tappe della storia russa le conosciamo attraverso la sua letteratura. La truce oppressione zarista, le ipotesi liberali dei decabristi, la rivolta nichilista, il populismo, i servi della gleba e i folli in dio, animano volta per volta le pagine di Gogol, Tolstoj, Dostoevskij, Cechov. Il grande momento rivoluzionario che fra il 1905 e 1917 colloca quel paese sterminato al centro del mondo, ci arriva anche dalle folgorazioni di una generazione di poeti: Blok, Majakovskij, Esenin. E poi ancora, la faticosa costruzione di una nuova umanità e la morsa stritolante del terrore staliniano sono i due poli nei quali si mossero quelli che furono assieme cantori e vittime del «secolo-belva»: Babel’, Bulgakov, Mandel’štam, Cvetaeva, Platonov e tutti gli altri.
BREVE PRIMAVERA
Nel 1956 Chrušcev annunciò la destalinizzazione, ma a una breve primavera seguì un autunno lungo un trentennio, noto come «stagnazione». Di quella fase noi conosciamo la letteratura di denuncia dei «dissidenti» (che vissero quasi sempre in esilio), ma quasi nessuna eco ci giunge della vita quotidiana dell’uomo sovietico all’epoca di Breznev. Eppure la letteratura non tacque, nacque il «samizdat», le edizioni clandestine manoscritte, poi ciclostilate di ciò che non era proprio «proibito» ma «caldamente sconsigliato», osteggiato, oscurato. Fiore all’occhiello di questa produzione letteraria furono le canzoni d’autore dei «bardi», riprodotte di audiocassetta in audiocassetta e passate di mano in mano, fino a raggiungere una popolarità che poteva rivaleggiare coi coevi Beatles. La poesia russa del Novecento ha fortissimi legami con l’oralità, dunque non stupisce che a un certo punto incontrasse la chitarra e il canto.
IMPONENTE PROGETTO
Qualche anno fa, grazie a un imponente progetto del Premio Tenco, abbiamo potuto conoscere il più famoso dei cantautori russi, Vladimir Vysockij, interpretato in italiano da Finardi o Capossela, più che un poeta una sorta di icona il cui ritratto si trovava nei taxi come in Italia quello di Padre Pio: per avere idea di cosa rappresenti per un russo degli anni Settanta Vysockij, dovremmo mettere assieme Fabrizio de André, Vasco Rossi e Carmelo Bene. Oggi, su iniziativa dell’editore SquiLibri, possiamo fare un passo indietro e (ri)scoprire un altro personaggio chiave della poesia, della canzone, della letteratura e forse della storia sovietica, colui che viene definito «il primo dei cantautori russi» Bulat Okudžava. Escono in questi giorni due prodotti gemelli: Vita e destino di un poeta con la chitarra, un’agile biografia redatta dalla slavista Giulia De Florio, corredata da un cd col prezioso documento dell’unico concerto dato in Italia da Okudžava (Sanremo 1985) e viene pubblicato al contempo il cd-book Nella corte dell’Arbat, un disco in cui il cantastorie anarchico Alessio Lega traduce e canta in italiano i brani di Okudžava.
SPERANZE E TRAGEDIE
Secondo lo slavista e culturologo Gian Piero Piretto: «Alessio Lega è riuscito a rendere in italiano non soltanto il senso delle poesie canzoni di Bulat Okudžava ma, soprattutto, lo spirito che le ha caratterizzate nel tempo (…) emergono la lirica semplicità delle storie, la profondità dei temi, la delicatezza dello stile. La traduzione è libera ma fedele (…) quasi incredibilmente per l’ascoltatore italiano che conosce l’originale, una perfetta fusione di atmosfere, suggestioni, linguaggio e timbro (…)».
Dal libro Vita e destino di un poeta con la chitarra apprendiamo una storia personale che ricalca speranze e tragedie di un intero popolo. Okudžava era nato nel 1924 in una famiglia georgiana-armena assai coinvolta nel processo rivoluzionario («ero il bambino più rosso dell’Unione Sovietica»), i genitori sono bolscevichi della prima ora ma il padre accusato di tradimento e trozkismo viene fucilato nel 1937, la madre non avendone più notizia bussa alla porta del temutissimo capo della polizia Berija, che conosce bene dato che anche lui (come peraltro Stalin) è georgiano: verrà arrestata la notte stessa e internata nel gulag per diciassette anni. Bulat è ancora un bambino, ma quel giorno finisce la sua infanzia. Certo che si tratti di un tragico errore del Partito cui i suoi genitori hanno dedicato la vita, parte volontario in guerra a 17 anni, facendo carte false per riscattare il buon nome della famiglia. L’uomo Okudžava che torna dalla guerra non è più il ragazzo che era partito: da quel momento l’ossessione della testimonianza e della poesia si impadroniscono di lui, scrive, insegna, diventa redattore della Literaturnaja gazeta, proprio nel fatidico 1956 esordisce con la prima raccolta e contemporaneamente comincia a cantare con la chitarra le sue liriche per una cerchia di amici. Qualcuno registra e diffonde, il successo è incredibile, le sue parole sono scarne, il contrario della retorica patriottica di regime: la guerra è lo spartiacque che divide per sempre l’infanzia dall’età adulta, i sogni dagli incubi, la rivoluzione dal potere. Benché la guerra occupi una parte importante dell’opera cantata di Okudžava (scrisse anche romanzi e racconti, molti dei quali pubblicati anche in Italia), la sua produzione si allarga almeno ad altri due temi principali: il rapporto con Mosca (amata, cantata, temuta) e la relazione di fitta corrispondenza con l’arte e gli artisti. Metafora di tutto un mondo agognato e perduto diventa, in particolare, il quartiere moscovita dell’Arbat, nel quale Okudžava aveva abitato coi genitori, l’antico mondo della solidarietà e dell’amicizia, dei ragazzi di strada sospesi fra il romanticismo e la malavita.
SULLA SCIA
Sulla scia di Bulat, sorse poi una schiera di cantori dei quali i più noti sono senz’altro Aleksandr Galic e Volodja Vysockij. Inconsolabile e sprezzante quanto invece Okudžava è dolce e soffuso, Galic è stato tra tutti il bardo più osteggiato e perseguitato, fino all’isolamento e poi all’espulsione dall’Urss.
Riparato infine in Francia, dissidente in rotta con gli altri dissidenti al punto da essere attaccato pubblicamente da Solzenicyn, morì in un mai chiarito incidente domestico. Vladimir VysockJi è invece un mito moderno così pervasivo da avere conquistato fan anche in Italia: era un animo punk, con una fame di vita che diventava foga autodistruttiva. Attore leggendario del teatro e del cinema, autore prolifico di più di 600 canzoni, marito dell’icona Marina Valdy, ha bruciato in 42 anni l’esistenza nell’alcolismo e nella tossicodipendenza ma il suo urlo rauco i suoi versi disperatamente vitali sono stati un talismano per un’intera generazione di russi. Ai suoi funerali, benché nessuno ne avesse dato notizia, si formò una coda di quasi dieci chilometri.
«Attraverso il vetro scuro/della mia birra importata/si vedeva la mia rosa/che cresceva indisturbata»: ironico, sommesso, mai frontale, Okudžava ha vissuto più a lungo dei suoi due celebri «allievi», arrivando a conoscere l’epoca di Gorbacev e poi lo sbriciolamento del potere sovietico. Non ne trasse la tranquillità, i suoi ultimi canti sono accorati ma non sereni, ci raccontano ancora di un uomo permanentemente sospeso fra speranza e disillusione, come la sua Russia. «Ma se non va così /se fu un’assurda sfida/che mi perdoni Iddio/mio figlio mi derida:/ho aperto le ali per il cielo degli umani/della speranza ho fatto il mio domani».
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