«Voi mi avete quasi che fatto perdere la vista a fatto: ché vi giuro a Dio, che sono stato in Campo Santo forse sei ore e ho cacato il sangue a leggere quelle cosaccie che voi mi chiedete»: così scriveva Cosimo Bartoli il 15 aprile 1561, da Pisa, in una nota lettera destinata all’amico Giorgio Vasari. L’ispezione in Camposanto per trascrivere le iscrizioni disseminate sugli affreschi doveva essere stata richiesta proprio dal Vasari, che stava approntando la seconda edizione delle Vite, che avrebbe visto la luce nel 1568. La vivida testimonianza del Bartoli ci fa intuire che, già allora, quelle iscrizioni non dovevano essere pienamente leggibili. Anzi, il segretario di Giovanni de’ Medici era ben consapevole del grave stato di conservazione degli affreschi, se poteva affermare poco dopo, nella stessa lettera: «questo è quanto vi si può mandare delli scritti di quella istoria. Del resto mi arete per scusato, incolpandone il tempo che divora ogni cosa; e credo, ci andran pochi anni, che non vi si leggerà cosa alcuna».
Gli affreschi che Bartoli guardava con tanto sforzo nella primavera del 1561 sono l’opera più celebre del pittore fiorentino Buonamico Buffalmacco. All’epoca in cui Vasari stendeva le Vite si era già persa memoria del nome del loro autore. Restava la potenza straordinaria di quelle figurazioni. È solo dal 1974 che il nome di Buffalmacco esce dall’indeterminatezza e viene riconosciuto come l’autore degli affreschi raffiguranti il ‘Trionfo della Morte’ in Camposanto. Il merito è stato di Luciano Bellosi, che in un importante saggio edito da Einaudi (poi, Five Continents, 2003, e Abscondita, 2016) era riuscito a legare quelle opere al nome del pittore. Così, oltre al Buffalmacco di cui parla Boccaccio in alcuni passi del Decameron, si sono potuti finalmente osservare anche gli esiti della sua attività artistica.
Il degrado è precoce
La vita degli affreschi pisani di Buffalmacco non è stata certo semplice. Collocati in un punto in cui l’umidità era (ed è ancora) fortissima, dovettero iniziare a degradarsi molto presto – e del resto, come detto, già da quanto Bartoli scriveva a Vasari si intuisce una situazione conservativa nient’affatto ottimale. A complicare ulteriormente le cose arrivò la Seconda Guerra Mondiale. Il 27 luglio 1944 la scheggia di una granata colpisce il Camposanto, e il tetto, rivestito in piombo, s’infuoca. Le alte temperature e il piombo colato dal tetto danneggiarono in modo sensibile gli affreschi. Ci volle del tempo per intervenire e tentare di porre rimedio al disastro. La decisione pare inevitabile: si procede con lo strappo. Questa è una tecnica di restauro molto aggressiva (che oggi non viene quasi più utilizzata) che, come indica il nome, strappa i centimetri superficiali del muro che ospita gli affreschi grazie a delle colle molto forti. Gli affreschi strappati vanno poi fissati su supporti e consolidati. Insomma, un ulteriore trauma inferto a opere già sofferenti.
Una volta strappati e ricollocati in Camposanto gli affreschi di Buffalmacco hanno però subito un’ulteriore peripezia conservativa. Ben presto, infatti, ci si rese conto che sulla superficie si formava una condensa dovuta alle variazioni di temperatura. Ora, l’umidità, nel tempo, è il male peggiore per gli affreschi. A poco a poco, infatti, penetrando nel muro, l’umidità trasforma il carbonato di calcio in solfato di calcio, cioè, praticamente, gesso. La superficie dell’affresco, letteralmente, esplode in piccoli crateri, e la pittura svanisce. Il ricorso ai fissativi e alle colle (sia quelle usate per legare gli affreschi strappati ai loro nuovi supporti in eternit, sia quelle utilizzate per frenare la solfatazione) hanno solo ritardato il problema, a volte anche contribuendo ad aggravarlo. Così, in tempi recenti, chi visitava il Camposanto si trovava di fronte ad affreschi fortemente ingialliti, i cui valori cromatici erano completamente virati verso un tono rossastro. Senza contare l’inesorabile avanzamento dei processi di alterazione delle colle e della solfatazione che, nonostante tutto, continuava a progredire.
Équipe multidisciplinare
Ci sono voluti quasi dieci anni di lavori preliminari per giungere a dare avvio alla campagna di restauri che si è conclusa quest’anno, con la presentazione, oggi, dell’ultima sezione restaurata, proprio il celeberrimo ‘Trionfo della Morte’. Il comitato scientifico guidato da Antonio Paolucci e l’équipe di restauratori diretti da Gianluigi Colalucci, Carlo Giantomassi e Donatella Zarri sono riusciti a mettere a punto un protocollo di intervento che si è giovato della collaborazione di ingegneri e biologi. I primi, per creare dei pannelli ultraleggeri e dotati di un sistema di sensori in grado di rilevare i cambiamenti di temperatura che sono all’origine della formazione dei depositi di condensa sulla superficie degli affreschi. In questo modo, grazie al ricorso di un sistema di autoriscaldamento del supporto, si riuscirà a scongiurare il progredire della solfatazione delle pitture. I secondi, grazie a Giancarlo Ranalli dell’Università del Molise, hanno messo a disposizione le colture di batteri che, applicate agli affreschi, hanno divorato i residui di colle animali utilizzate per fissare gli affreschi.
Poco a poco, a partire dall’‘Inferno’, gli affreschi restaurati sono stati ricollocati in Camposanto. Come si era avuto occasione di segnalare nel dicembre 2016, rivedere oggi l’opera di Buffalmacco lascia quasi senza fiato. Per studiare gli affreschi eravamo abituati a ricorrere alla preziosa campagna fotografica Alinari – preziosa perché permette di leggere l’opera nel suo stato pre-Seconda Guerra e che resta de facto uno strumento utilissimo –, anche perché consentiva una maggiore leggibilità rispetto all’originale, così oltraggiato dal tempo e fortemente alterato nella sua leggibilità. Adesso ci si trova di fronte a una superficie ‘pulita’ e, in molti punti, risarcita nella sua leggibilità. Sono emersi molti dettagli che erano rimasti a dir poco offuscati, molte delle superfici sembrano essere tornate a una brillantezza che si credeva scomparsa. Con la ricollocazione del ‘Trionfo della Morte’ in Camposanto, che avverrà il 17 giugno prossimo in occasione della festività di san Ranieri, il lungo e delicato processo di restauro potrà dirsi, finalmente, completato.
Le oche e lo scudiero
A insistere con gli occhi su alcuni dettagli, come le oche trasportate da uno degli scudieri dei giovani a cavallo, o la bellissima resa dei falchi di questi giovani in brigata, sembra di osservare un’opera nuova. Il fastidioso tono rossiccio che alterava completamente i rapporti cromatici e luministici è sparito. In alcuni punti si colgono i resti di alcune stesure date, probabilmente, ‘a secco’ – cioè sulla superficie dell’affresco una volta che questa si era già asciugata – e verosimilmente già ‘perse’ in antico. All’estremo opposto, sulla destra del grande affresco, la gioventù raccolta nel verziere – che è impossibile osservare senza far aggallare alla memoria le novelle del Decameron – ha rivelato anch’essa una facies quasi del tutto nuova. Le stupende vesti colorate, tutte decorate in modo diverso a dare l’idea dell’alto rango dei personaggi raffigurati, incantano per la fantasia di realizzazione. L’impegno per giungere a questo risultato è stato davvero titanico. La corsa contro «il tempo che divora ogni cosa», per adesso è frenata. Non resta che tornare, da giugno, ad ammirare il ciclo ricollocato.