I Si arresta bruscamente la favola della Bio-On, azienda bolognese che prometteva di rivoluzionare il mercato della plastica con i suoi prodotti a base di polimeri 100% naturali e 100% biodegradabili. Era un unicorno, come si dice in gergo finanziario, una startup innovativa capace di andare in pochi anni da zero ad un miliardo di dollari di valutazione. Una piccola-grande storia italiana che almeno fino all’anno scorso era racconta con toni trionfali dai media, adeguatamente riforniti di notizie trionfalistiche dal management. Parola d’ordine di quasi ogni comunicato era, ovviamente, «rivoluzione».

E si ammiccava molto alla svolta green in corso in tutto il mondo. Oggi quella di Bio-On è una storia che parla di un’inchiesta della magistratura, di un presidente ai domiciliari, di centinaia di piccoli azionisti che hanno perso moltissimo e che ora sperano di mettere in piedi una causa collettiva, di almeno 100 lavoratori che non si sa che fine faranno.

A fare saltare il banco l’operazione «Plastic Bubble» (bolla di plastica, ndr) della Guardia di Finanza, che ha portato a tre misure cautelari nei confronti dei principali manager dell’azienda e al sequestro di beni per 150 milioni. Le ipotesi di reato formulate dalla Procura di Bologna sono false comunicazioni sociali delle società quotate e manipolazione del mercato. Marco Astorri, il presidente di Bio-On, è finito ai domiciliari. Il divieto di esercitare uffici direttivi di persone giuridiche è invece scattato per il suo vice Guido Cicognani e per il presidente del collegio sindacale Gianfranco Capodaglio, accusati di falso in bilancio e manipolazione del mercato. In tutto gli indagato sono nove. Sospeso ovviamente il titolo in borsa.

L’inchiesta parla di ricavi «non veritieri per tempistiche e modalità di realizzazione» iscritti a bilancio dal 2015 al 2018, e di parte dei ricavi generati dalla cessione di licenze a due joint venture contabilizzate nel 2018 che, secondo gli inquirenti, erano «frutto di operazioni fittizie». A questo si aggiungeva una strategia comunicativa definita «roboante, ammiccante ed ottimisticamente proiettata verso obiettivi sempre più significativi», che però «sottaceva alcuni dati». A supporto dell’accusa le intercettazione telefoniche degli ultimi mesi.

I primi seri scricchiolii della Bio-On si era visti a luglio, con le accuse del fondo speculativo americano Quintessential. Una vera spallata, visto che il fondo definì Bio-on «una nuova Parmalat» e un «castello di carte» che sarebbe arrivato presto «al collasso totale». Ci fu subito un tonfo in borsa, ma poi il management denunciò il fondo per market abuse, definì le accuse totalmente false, e il titolo riguadagnò parzialmente quota. Le affermazioni di Quintessential non erano ovviamente disinteressate, visto il ruolo del fondo che ha puntato e guadagnato milioni sul ribasso delle azioni Bio-On, ma evidentemente non erano nemmeno campate in aria.

A dirlo il Procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato, che ha parlato di un’analisi che «ha trovato, se vogliamo, un riscontro in quanto emerso dalle indagini». «Tutte le entrate delle joint venture sono fittizie», diceva al telefono uno degli indagati. La Bio-On inoltre raccontava di uno stabilimento, quello di Castel San Pietro nel bolognese, capace di toccare le mille tonnellate all’anno di produzione mentre – ha accertato la Finanza, dall’inizio del 2019 non sarebbe andato oltre le 19 tonnellate.

Tra i tanti, c’è anche il problema dei posti di lavoro. La procura assicura, per quanto le compete, di stare facendo il possibile per salvaguardarli. Dal 2014 ad oggi i sindacati non sono mai riusciti a mettere piede in azienda, anche per il disinteresse dei lavoratori. A giorni ci sarà la prima assemblea. Poi c’è il capitolo degli azionisti piccoli e medi, che magari avevano immaginato di avere messo le mani sulla classica gallina dalle uova d’oro. Le azioni di Bio-On nel luglio del 2018 valevano 70 euro, contro i 10 di ieri, prima della sospensione del titolo.