Non mi spaventa l’aspetto del già visto, di ciò che è stato già fotografato, semplicemente vivo la mia vita e fotografo quello che voglio fotografare» – afferma Michael Kenna (Widnes 1953, vive e lavora a Seattle) in occasione della chiusura della mostra Buddha (il libro è stato pubblicato da Prestel nel 2020) nel veneziano Palazzo Loredan, organizzata da Fscire – Fondazione per le scienze religiose con l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti e l’Unione Buddhista Italiana. Nelle sale dello storico edificio questa «collezione» fotografica dedicata alle diverse rappresentazioni di Siddhartha Gautama o Gautama Buddha era in dialogo con documenti e libri sullo stesso argomento appartenuti al giurista, economista e accademico Luigi Luzzatti, conservati in questo stesso palazzo, inclusa la lettera del 1914 di cui il mittente è lo scrittore giapponese e insegnante di religioni Masaharu Anesaki, autore del saggio Nichiren, The Buddhist Prophet.

Questa sua personale «collezione» di Buddha è stata realizzata in un vasto arco temporale e in diversi luoghi – dal Grande Buddha di Kamakura (Giappone) al Buddha bianco di Kalaw (Myanmar) – fotografati all’interno dei templi o in mezzo alla natura, così come nelle teche del Musée Guimet a Parigi. Come cambia il suo approccio emotivo in rapporto alla diversa percezione del soggetto?
La gamma emotiva è decisamente vasta, dipende dalla giornata, dalle circostanze, dalle relazioni, dal tempo meteorologico. Certamente, se fotografi Buddha in un tempio misterioso in mezzo a Shikoku, in Giappone, dove nessuno parla inglese e puoi meditare al suono delle campane, in mezzo all’incenso, l’atmosfera è molto diversa che se ti trovi al Musée Guimet e cerchi di fotografare le statue al di là del vetro. Io ho fotografato statue di Buddha ovunque sapevo di poterle trovare, passando attraverso un’intera possibilità di variabili. Certe volte mi sono fatto spazio in mezzo ai turisti, sudando per cercare l’angolazione migliore o magari, come in Vietnam, mi sono fermato per un’ora o due a meditare, per poi mettere la macchina fotografica sul cavalletto e stabilire l’esposizione. La mia reazione emotiva è più oggettiva, rivedendo queste fotografie a distanza di anni, c’è una diversa connessione con le immagini stesse che sono diventate come parte di una meravigliosa famiglia.

Tutto è partito da un viaggio in Giappone nel 1987: fu una «rivelazione» la vista del Daibutsu nel tempio Todaiji di Nara, una statua in bronzo alta 15 metri…
Era anche il mio primo viaggio in Giappone. Ricordo la sensazione di trovarmi di fronte a quel Buddha che non è certo di quelli con cui puoi avere una «conversazione individuale». Nella sua maestosità è una figura seduta potente e universale che fa tremare. Però tutt’intorno l’atmosfera era affollata da tantissimi turisti. A Kyoto e Tokyo ho trascorso il tempo andando di tempio in tempio, visitando anche i santuari shintoisti. Non mi interessava tanto distinguere le religioni, quello che cercavo di fare era immergermi in quella cultura misteriosa ed estremamente esotica, cosa che ho continuato a fare per anni e che faccio ancora oggi.

Diversamente dai paesaggi naturali, urbani e industriali, pensando a serie famose come Ratcliffe Power Station, che nelle sue fotografie vengono restituiti in una riduzione di elementi che talvolta diventano quasi grafici, nelle foto dei Buddha prevale la testimonianza descrittiva. Concettualmente è cambiato il suo «sguardo intuitivo»?
In luoghi come la centrale elettrica di Ratcliffe ho la possibilità di girare intorno, osservando da punti diversi le condizioni del tempo e la luce che cambia. Ogni volta che vi torno sarà diverso. Ho anche la possibilità di fare sia lunghe esposizioni che scatti veloci. Tutto questo è un po’ diverso con le statue di Buddha che stanno in un luogo specifico, circondate da cose. Non c’è la possibilità di guardarle da ogni angolazione, spesso poi c’è la presenza di persone che pregano e fanno meditazione per cui devo essere molto silenzioso. Non sono io a creare l’opera, sono consapevole di documentare la creazione di qualcun altro. Sto solo collaborando, o meglio collezionando, in molti modi, ma documentare quello che è già lì – la bellezza, il mistero, la profondità di queste statue – è già abbastanza.

Quali sono le problematiche tecniche nel fotografare in bianco e nero le statue con la loro superficie dorata riflettente o in bronzo, arenaria, marmo? Rimane sempre centrale per lei il ruolo della camera oscura, fondamentale fin dagli studi al London College of Printing, seguiti dagli anni di collaborazione con i fotografi Anthony Blake e Ruth Bernhard a San Francisco?
Fotografo ancora in analogico, non faccio nulla in digitale. Preferisco il viaggio lungo e imprevedibile della fotografia analogica. Spesso fotografo e non stampo l’immagine se non moltissimi anni dopo, come per molte delle statue di Buddha. Il fatto stesso di andare in quei luoghi e fotografare le statue – avere quella conversazione con loro e documentarla – mi rende felice. Quanto alla tecnica non parlerei di problematiche, quanto piuttosto di ingredienti interessanti. Le mie fotografie non restituiscono mai un’immagine come l’originale, quindi anche se le statue sono d’oro, marroni, verdi, rosse o gialle certe volte il colore esce fuori, altre no. Può essere una sorpresa piacevole o il contrario, ma non è un grande problema. È solo parte del processo. Se sono in un tempio buio posso girargli intorno con il mio iPhone e fare degli scatti anche molto buoni, addirittura migliori – grazie alla tecnologia – di quelli che potrei fare in quel momento con la mia Hasselblad. Ma per me non fa parte del processo. Amo mettere il cavalletto, osservare con calma, fare un po’ di calcoli e poi spostare l’apparecchio su e giù, in diversi angoli e fotografare con esposizioni da 5, 10, 30 minuti.

Dare la priorità al senso della vista comporta l’esclusione degli altri, in particolare l’udito e l’odorato che pure sono connessi con gli aspetti rituali delle religioni. Vive come una frustrazione, o si tratta di sublimazione, il non poter includere nella sua narrazione l’odore degli incensi o il suono delle campane e delle preghiere?
Quando mangi un’arancia non devi assaggiare la mela. La mia fotografia in bianco e nero è essenzialmente un processo di riduzione in cui il colore è stato eliminato, come pure l’odore e il movimento. È come scrivere un haiku al posto di una descrizione dettagliata di tutto quello che avviene. Ma non lo vedo come un aspetto negativo, solo come un rettangolo in bianco e nero con una composizione di grigi in cui è tutto concentrato. Se fotografo un albero nell’Hokkaido e stampo la foto in un secondo momento, posso ricordarmi l’associazione di immagini che erano intorno a me al momento dello scatto, ma nella fotografia non sento il bisogno che ci siano i fiocchi di neve o il vento che arriva da dietro.

Una domanda che le viene posta spesso riguarda il suo desidero di entrare nel seminario cattolico, invece io preferisco chiederle qualcosa sull’infanzia, ultimogenito di sei figli in una famiglia di origine irlandese: cosa ha nutrito la sua curiosità e come si è manifestata l’esigenza di creatività?
Penso che la curiosità nasca proprio dall’essere stato membro di una grande famiglia. Vivevo in una piccola casa della classe operaia con quattro fratelli e una sorella, i miei genitori e mia nonna. Forse proprio per questo volevo essere da qualche altra parte (ride), così durante l’infanzia ho trascorso moltissimo tempo da solo. Ero felice di creare dei giochi tutti miei, perfino a cricket giocavo da solo. Ricordo che scrivevo degli appunti che mettevo in qualche angolo della casa, oppure fuori, e poi li riprendevo giorni o addirittura settimane dopo. Quel qualcosa legato allo scorrere del tempo, al cambiamento, alla creazione di memorie si è installato in me e ha dato presto forma alla mia immaginazione. Ho spesso detto che quegli anni sono stati molto più importanti nel mio processo formativo di fotografo che non quelli in cui ho studiato la fotografia. Anche molti dei luoghi che ho fotografato anni dopo, ritengo che provengano da quel momento: la familiarità di un terreno, le fabbriche, i percorsi dei canali. Insomma, l’intima giustapposizione tra la struttura umana e il paesaggio che fotografo da tutta la vita. Anche il forte interesse per la religione è stato importante nella mia formazione. I miei genitori appartenevano alla chiesa cattolica ed io sono cresciuto facendo il chierichetto. Parlando del mio stare da solo, devo aggiungere che andavo spesso in chiesa. Mi sedevo, ascoltavo la messa, immaginavo e sentivo di avere una connessione diretta con il divino che era qualcosa di invisibile. Questo aspetto di presenza invisibile è confluito nel mio lavoro di fotografo. In fondo, non faccio altro che creare l’illusione di qualcosa che non è lì.