ExtraTerrestre

Budd, musica per le foreste

Storie Un ricordo del compositore californiano Harold Budd recentemente scomparso per complicanze da Covid-19. Le sue sonorità poetiche e suggestive sono perfette per farsi accompagnare durante una passeggiata in montagna, fra i boschi innevati di fresco o tra le conifere alpine

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 31 dicembre 2020

Non di rado quando m’inselvo mi faccio accompagnare dalla buona musica. Soprattutto quando riesco a cucirmi quei giorni di fila nei quali mi rintano in montagna da qualche parte, aderendo alle ombre degli alberi. Infatti, in diversi libri che ho cucito ho inserito dei consigli all’ascolto per le camminate, l’ho fatto ad esempio inchiostrando le perlustrazioni dei giardini storici in L’Italia è un giardino (Laterza), visitando i grandi alberi delle città italiane ne I giganti silenziosi (Bompiani) o, ancora, decorando le meditazioni in bosco raccolte in Il sole che nessuno vede (Ediciclo) ed Interrestràre (Lindau). Come molti spiriti solitari ogni tanto la solitudine gonfia lo spazio e ci resta qualcosa da riempire: la musica può diventare la compagna ideale.

L’8 DICEMBRE, GIORNO DELL’ILLUMINAZIONE del Buddha Sakyamuni, a causa di complicanze da Covid19, il compositore californiano Harold Budd si è spento a ottantaquattro anni. La sua musica mi ha accompagnato per trent’anni. Il primo cd che acquistai, in un negozio nel centro di Torino, é stato Glyth, era il 1995. Copertina coloratissima, rose rosse. Un lavoro a quattro mani con un altro spirito planetario e cosmico, Hector Zazou. Ne restai ipnotizzato. Avevo incrociato il nome di Budd già altre volte, bazzicando nei lavori di Brian Eno, ma non era mica come oggi che basta digitare un nome e ti vien fuori tutta la musica che vuoi. Al tempo la musica dovevi cercartela. E scoprirla, perché gli annuali, le riviste o i giornali raccontavano qualcosa ma non era facile andare a cercare quel caso o addirittura quel genere o sottogenere musicale che non sapevi esistesse, artisti che magari amavano restare ai margini, ai margini del sistema di produzione musicale, al margine dello star-system che riempiva le pagine di qualsiasi media coi suoi protagonisti, autentici o meno che fossero.

OGGI ANCHE QUESTO APPARE ARCHEOLOGIA, l’indipendente in ogni settore culturale è ormai mosso dagli stessi bisogni e traguardi che ha la grande casa di produzione, o il museo nazionale, piuttosto che il teatro civico o la casa editrice di primo piano. Al tempo vivere da indipendenti era una missione politica, un atto etico, oggi tutto questo è scomparso. Anche quelli fra di noi che credono di incarnare gli ultimi dei moicani in verità si allineano, temo che non sia davvero possibile fare altrimenti. Per queste e altre ragioni ancora erano fondamentali i programmi radiofonici, i magazine, quanto le amicizie: la musica nuova o la musica inconsueta te la passavano gli amici o i fratelli maggiori, i cugini un po’ hippy sui loro Ciao ridipinti in garage, con le bombolette spray, magari, o te la compravi nei negozi, se avevi i soldi per farlo.

I NEGOZI DI MUSICA POI ERANO MECCHE, delle spezierie sublimi, semibuie, con nomi assurdi – mi ricordo ad Alessandria il mitico Zarathustra, piccoli bazar di nerd e altri irrituali, ribelli o mancati tali, anarchici e infuocati giovani. Certi venditori diventavano dei confidenti, e dopo un po’ potevi chiedergli di fartelo ascoltare, quel nuovo Lp, quel Cd, quella musicassetta: e cosi passavi mezz’ora a passeggiare e curiosare fra gli scaffali e i ripiani mentre ascoltavi il nuovo disco dei Guns ‘n Roses, di Pat Metheny o di Harold Budd, la nuova raccolta dei successi dei Clash, il vecchio disco di Frank Zappa che non conoscevi, uno fra i tanti, decidendo se l’avresti comprato, fatto mettere da parte o meno. Poi sono arrivati gli anni Duemila, internet, Youtube, i social e Amazon e quel mondo si è semplicemente prosciugato.

IL PERCORSO CREATIVO DI HAROLD BUDD si è sviluppato costantemente in una ricerca di sonorità e armonie che muovevano dall’idea di un universo da costruire, un pianeta – musicale, percettivo – altro, una foresta di suoni e sensazioni dove sospendersi. Queste città «abbandonate e sospese» sembrano adattarsi, grazie all’uso di sintetizzatori, campionamenti, divagazioni ripetute e circolari al pianoforte, ad un ambiente postindustriale, eppure riescono a sposarsi compiutamente e magicamente anche nella dimensione ridotta, spoglia, essenziale che richiama e nutre un pieno contatto con Madre Natura.

INOLTRE, COL PASSARE DEL TEMPO e la trasformazione – o meglio, la raffinazione – degli strumenti di lavoro i suoni si sono arricchiti e levigati giungendo alle opere composte in questo millennio, probabilmente più eleganti e raffinate rispetto alle prime decadi. L’esordio risale al 1970 col doppio The Oak of the Golden Dreams (La quercia dei sogni dorati) e Coeur D’Orr, ai tempi in cui Budd insegnava all’Istituto delle Arti della California. La convinzione di poter essere un artista si rinvigorisce e si affievola ripetutamente per l’intero decennio fino a quando escono prima The Pavillion of Dreams nel 1978, quindi The Plateaux of Mirror con Brian Eno nel 1980, inaugurando un trentennio molto ricco con collaborazioni fruttuose con artisti vari, quali Robin Guthrie e i Cocteau Twins, Billy Nelson, John Foxx, Clive Wright, l’italiano Eraldo Bernocchi e molti altri.

LA PRODUZIONE DI HAROLD BUDD è costellata di perle che escono prevalentemente per case discografiche che compaiono e scompaiono anche rapidamente, per poi essere rieditati da altrettante comete. Abandoned Cities (1984), The Pearl (1984), The White Arcades (1988), Agua (1989), The Room (2000), La bella vista (2003), A song for lost blossoms (2008), In the mist (2011), Bandit of Stature (2012). In cima al mio personale gusto ci sono By the dawn’s early light (1991), condito di poesie e testi dello stesso magnificamente recitate – quasi un must per coloro che tentano di rendere il verso in lingua inglese attraverso la voce – e il doppio Avalon Sutra (2013) che resta il mio preferito. Componimenti quali Arabesque, L’enfants perdue, It’s sleeper near the roses, A walk in the park with Nancy sono perfette per farsi accompagnare durante un trekking in foresta, in cresta in montagna o fra i boschi innevati di fresco nelle nostre piccole foreste di conifera sui rilievi alpini.

DUE ANNI FA HAROLD HA TENUTO un concerto a Londra, due o tre date, volevo andarci, diamine, volevo proprio andarci ma poi i soliti quattro spiccioli in tasca… il volo, il viaggio, le rogne e il fastidio di lasciare il covo e così ora ho un rimorso che morderà fino per il resto dei giorni. Ma resta la sua poesia sonora e questa mi accompagna ovunque: fra i larici e le cascate della Val di Rabbi, fra i castagni secolari e scardinati del bosco di Grou nell’entroterra ligure, nelle leccete mediterranee cucite fra il mare di Enea e le piccole isole sperdute, o ancora gli arboreti cittadini di Capodimonte a Napoli o i ficus cattedratici degli orti botanici di Palermo e Cagliari.

NEGLI ULTIMI ANNI BUDD VIVEVA come un eremita nella sua casetta nel deserto del Mojave, un destino forse comune a tanti compositori moderni e contemporanei. In quegli spazi ampi, piani e desertici laddove, da ragazzino, era cresciuto ascoltando il mormorio del vento, ora se ne stava a ricordare, a leggere, a osservare fuori. In una rara intervista raccontava che in casa sua non ci sono pianoforti, poiché li ritiene degli oggetti brutti, ingombranti, eppure tutti sappiamo quale musica magistrale egli ci abbia donato grazie a quelle file di tasti e alla sua immaginazione spaziale.

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