Ladislao Mittner, grande patriarca della germanistica italiana, cominciò nei primi anni Sessanta a scrivere la sua monumentale Storia della letteratura tedesca guidato dall’intento di rendere nuovamente accessibile e, soprattutto, accettabile la conoscenza della cultura tedesca e del suo tormentatissimo divenire storico dopo i disastri della guerra, del dodicennio hitleriano e delle stragi nazifasciste. In un panorama di studi internazionali che si preoccupava di individuare continuità sospette nell’evoluzione del pensiero tedesco «dai romantici a Hitler» per citare solo il titolo di un libro allora famoso di Peter Viereck, Mittner tracciò in una cavalcata formidabile lunga dieci volumi la linea di un’arte e di un pensiero che mai avrebbe potuto giustificare la nascita del Terzo Reich e che il nazionalsocialismo aveva dovuto infatti stravolgere, censurare o cancellare pur di potersi legittimare come regime generato dalla più«autentica» tradizione tedesca.

Autore di opere capitali
Nel costruire quell’impresa Mittner fu molto attento a far emergere dalla sua rigorosa rappresentazione le immagini dei grandi scrittori che con la loro opera avevano dato volto a una Germania umana, geniale e ribelle a ogni potere autoritari e violento: Grimmelshausen, Goethe (non Schiller!), Heine, Kafka, Brecht, Thomas Mann e, naturalmente, Georg Büchner. Alle sue poche opere e alla sua brevissima vita Mittner dedicò una cinquantina di pagine strepitose, che ancora oggi vale la pena di leggere, perché anche a un’epoca abbandonata dalle ideologie e minacciata dalle sue idee la fulminea meteora di quei pochi, ma incredibili anni ha ancora moltissimo da dire.

Delle opere si sa. La morte di Danton è forse il più grande dramma sulla rivoluzione di sempre, il Woyzeck un capolavoro tragico che fu giustamente elevato a oggetto di culto dai naturalisti e dagli espressionisti, il Lenz, nella sua gelida prosa analitica, un frammento che bastò da solo a fondare una linea narrativa giunta fino ai racconti di Brecht e oltre.

Delle poche pagine che Büchner lasciò dietro di sé solo la commedia Leonce e Lena, straordinaria macchina teatrale carica di sarcasmo corrosivo, e il ristretto residuo delle sue lettere superstiti stentano a trovare il dovuto riconoscimento. Ma se la commedia è oscurata, sia pure ingiustamente, dalla grandezza del Büchner tragico, la scarsa conoscenza del suo epistolario è un errore: perché quelle lettere, in massima parte selezionate e tramandate dal fratello minore Ludwig a metà Ottocento, sono uno dei documenti più lucidi e profondi provenienti dalla storia delle speranze e dei fallimenti di un’epoca intera e, ritagliate per delineare una biografia epistolare sono anche un grandissimo documento letterario.

È dunque un bene che riappaiano – Lettere 1831-1837 – (nella vecchia e meritoria traduzione di Alba Bürger Cori aggiornata e integrata con le lettere emerse dalle ricerche più recenti, Giometti e Antonello, pp. 104, € 16,00). Si resta infatti inevitabilmente catturati dalla storia che rivelano in controluce. Costrette come sono a dire e tacere per non finire nelle mani della censura o, peggio, per risultare prove a carico di colui che era stato uno dei promotori del tentativo di sommossa dell’Assia e aveva contribuito a redigerne il breve e geniale manifesto, forniscono l’immagine più vivida della parabola esistenziale di Büchner: brillantissimo studente di scienze, rivoluzionario, perseguitato politico, esule, traduttore di Victor Hugo per necessità, scrittore geniale e professore di anatomia comparata all’Università di Zurigo a ventitré anni, immediatamente prima di soccombere al tifo. Ma, soprattutto, queste lettere rivelano la loro straordinaria capacità di aderire e parlare alla realtà di epoche diverse.

Così l’epistolario büchneriano ha ispirato, un tempo, generazioni di ribelli affascinati dal coraggio e dalla lucidità dell’adolescente in perenne fuga da polizia, spie e decreti di espulsione; è diventato poi uno dei riferimenti obbligati per gli studiosi del nichilismo europeo che di esso esaltarono la celebre lettera sul fatalismo della storia («Ho studiato la storia della Rivoluzione. Mi sono sentito come annientato sotto il mostruoso fatalismo della storia. Trovo nella natura umana una spaventosa uguaglianza, nei rapporti umani un’ineluttabile violenza, concessa a tutti ed a nessuno. Il singolo è solo schiuma sulle onde, la grandezza è un puro caso, la sovranità del genio una commedia di burattini , un ridicolo lottare contro una legge ferrea»).

Oggi colpiscono il disprezzo per i denuncianti, per i demagoghi e i dispensatori di verità a buon mercato che emergono, ad esempio, in una lettera del primo gennaio 1836 in cui Büchner reagisce alla chiusura della «Rivista tedesca», l’organo liberale di stampa fondato da Carl Gutzkow: «Gridare a bocca ben spalancata “immorale!” è il mezzo più banale che esista per tirare dalla propria parte la gran massa. Ma mi adiro ugualmente quando quella gente, che ha peccato in pratica mille volte di più che non costoro in teoria, mette su una grinta moralistica e scaglia la prima pietra».

Le condizioni della critica
Büchner, che fu un critico severo e, anzi, spietato delle proprie debolezze morali è in questo, veramente, il campione di una politica e di un’etica tedesca che, come ben vide Mittner, non avrebbero mai potuto essere confusa con le degenerazioni del Novecento. Perché già in lui, come più tardi in Thomas Mann, il diritto alla critica, alla condanna e anche alla ribellione è una conquista dell’autocoscienza e può scaturire soltanto dalla consapevolezza che la storia non permette all’individuo di sottrarsi o di distinguersi dalla massa. Solo chi sa di non essere altro che l’ingranaggio di un meccanismo unico e uniforme ha il potere e il dovere di esercitare, con la critica di se stesso, anche la critica dell’altro.