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Büchel, disorientamento fra merci decadute

Christoph Büchel, Monte di PietàChristoph Büchel, Monte di Pietà – Marco Cappelletti, courtesy Fondazione Prada

A Venezia, Fondazione Prada Il progetto Monte di Pietà dello svizzero Christoph Büchel: un’impressionante congerie di oggetti che deride l’economia degli scambi e le liturgie del dono

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 7 luglio 2024

Opera d’arte totale, apocalittica Wunderkammer, idiosincratica collezione di collezioni, il progetto Monte di Pietà firmato da Christoph Büchel a Ca’ Corner della Regina (fino al 24 novembre) ha il fascino vertiginoso di un dispositivo pensato per produrre sempre nuova incertezza.

Colossale macchina analogica che produce differimento e différance, l’installazione con cui l’artista svizzero ha, letteralmente, invaso il piano terra, il mezzanino e il primo piano nobile del prestigioso palazzo sul Canal Grande, dal 2011 sede veneziana della Fondazione Prada, è concepita innanzitutto per destabilizzare ogni immediata attribuzione di valore, per impedire ogni riconoscimento di funzione. Nulla di ciò che con dissimulata cura l’artista ha organizzato all’interno di spazi che già in passato avevano conosciuto l’accumulo e la classificazione – l’edificio di Ca’ Corner della Regina, costruito agli inizi del Settecento sulle rovine di una residenza più antica, per oltre un secolo, dal 1834 al 1969, ospitò il Monte di Pietà di Venezia accogliendo in seguito l’archivio storico della Biennale – è (soltanto) quello che appare.

Nonostante siano individuabili tassonomie merceologiche e persino museali nelle stanze occupate da Monte di Pietà (oltre alla targa del Museo del debito e della guerra, «aperto tutto l’anno e tutti i giorni su prenotazione», si incontra, appoggiata su un mobile da cucina in formica, l’insegna in tre lingue dell’ambiguo Musée des souvenirs), è alla fine il disorientamento a guidare il visitatore nell’esplorazione del paesaggio oggettuale allestito da Büchel, una controllata quanto impressionante congerie di oggetti e di merci decadute, una studiata raccolta, a tratti derisoria, sempre perturbante, di ciò che è (momentaneamente?) escluso dall’economia degli scambi e dalle liturgie del dono.

Le biciclette accatastate nella corte interna sotto i panni stesi, le vecchie e, in qualche caso, antiche scarpe messe in fila sugli scaffali, gli abiti usati ordinati per tipologie sugli stender, i disegni e i dipinti, tantissimi, esposti in fitte quadrerie, appesi alle rastrelliere o appoggiati senza dichiarato criterio gli uni sugli altri, i libri impilati e i gioielli in vetrina, le monete, le medaglie, gli elettrodomestici, gli orologi fermi, i grandi volumi contabili, le armi, gli ex voto, le fotografie, i giornali, le maioliche, i motorini e le sedie a rotelle sono relitti e, insieme, semiofori che ci raccontano di ciò che non si vede, sono cose in cui, come ha scritto Remo Bodei, si nasconde una causa e una direzione, e sono oggetti, desiderati e desideranti, che hanno un peso e una storia, una memoria talvolta insostenibile (e viene in mente la Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri del volo IH 870 che completa il Museo per la memoria di Ustica di Christian Boltanski), sono testimoni di vite trascorse e promesse di ulteriori esistenze. Amuleti contro l’indifferenza e l’oblio, come il topo bianco d’avorio che Dora Markus stringeva tra le dita («e così esisti!», scriveva Montale), gli innumerevoli «pegni» raccolti e assemblati con minuziosa attenzione nelle stanze, sontuose o disadorne, di Ca’ Corner sembrano vivere uno specie di stato di latenza, come fossero in attesa di essere riattivati, di essere rimessi nel circolo, per nulla virtuoso, del debito.

Per il suo ritorno a Venezia, Büchel, che alla Biennale del 2015 aveva proposto per il padiglione islandese la discussa installazione The Mosque alla Chiesa dell’Abbazia della Misericordia mentre nel 2019, sempre alla Biennale, aveva presentato Barca Nostra, il relitto del peschereccio tragicamente naufragato al largo di Lampedusa nel 2015, ha voluto architettare un ordigno percettivo e concettuale che attraverso la presenza ingombrante degli oggetti, il cui funzionamento è, comunque, ibrido e transazionale, espone e, soprattutto, interroga proprio la natura, anch’essa anfibia, del debito, la sua concretezza e la sua astrazione, mettendo in luce anche le forme sempre più immateriali in cui oggi il debito si manifesta, secondo un rituale che Jean Baudrillard nelle pagine del suo ormai classico Il sistema degli oggetti (1968), aveva definito la «precessione del consumo».

Una pratica di sconcertante pervasività, quella del debito, che non conosce confini e non ha limiti, che si riproduce senza interruzione e che ha trovato un’ulteriore frontiera nelle criptovalute e nelle transazioni finanziarie che si moltiplicano online secondo dinamiche che Büchel ha messo in mostra attraverso il progetto digitale Schei, promosso da TikTok e riservato alle persone nate o residenti nel Comune di Venezia.

A fare da contrappunto alla volatilità senza corpo delle criptovalute, la durata eterna dei diamanti: quelli esposti a Ca’ Corner sono artificiali, realizzati attraverso un processo di tecnologica condensazione della produzione dello stesso Büchel, autore di The Diamond Maker (2020-), un lavoro che si avvale del supporto di un’azienda specializzata nella creazione, a partire dalle ceneri di cremazione, dei cosiddetti «diamanti della memoria». Non è certo questa l’unica opera d’arte che Monte di Pietà ha annesso e cannibalizzato: a leggere l’elenco, ovviamente parziale, «delle opere e degli oggetti in mostra» (non sono menzionati, per fare giusto qualche esempio, gli arti artificiali, le roulette o le lavatrici), s’incontrano, tra gli altri e in ordine sparso, i nomi di Marcel Duchamp, di Giulio Paolini, di Michael Landy, Santiago Serra, Chris Burden, Andy Warhol, Piero Manzoni, Robert Filliou.

E poi ci sono gli oggetti (più di cinquanta), che provengono dalle collezioni del Museo delle Civiltà di Roma e che raccontano soprattutto storie di schiavismo e di colonizzazione: manette e catene, campioni di legno, semi Italo o Balilla, medaglie, stemmi delle città dell’Eritrea. Anche il Mudem–Museo della Moneta, Banca d’Italia, ha contribuito alla messa in scena del debito con le sue antiche tavolette cuneiformi, con le conchiglie e con le monete d’osso di pietra di metallo, mentre il Louvre ha concesso ambre e maioliche.

Ma forse il museo che più è vicino all’architettura di Monte di Pietà è quello dello scienziato napoletano Ferrante Imperato, tramandato dalla xilografia posta ad apertura della sua Historia naturale (1599), di cui una copia secentesca è arrivata fino agli scaffali allestiti a Ca’ Correr. Un gremitissimo theatrum mundi che attraverso la precisa disposizione spaziale di elementi del microcosmo voleva per analogia mostrare la ricchezza e la complessità del macrocosmo, un sistema di forze inaccessibile eppure così terribilmente influente sui destini fragili dell’uomo. Proprio come il debito

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