Bruto il tirannicida senza i lustrini del mito
Storia romana Simbolo della libertà repubblicana per gli Umanisti e i giacobini, non ebbe le istanze democratiche dei Gracchi: come mostra Roberto Cristofoli, in una documentata biografia per la Salerno
Storia romana Simbolo della libertà repubblicana per gli Umanisti e i giacobini, non ebbe le istanze democratiche dei Gracchi: come mostra Roberto Cristofoli, in una documentata biografia per la Salerno
Come noto, Manzoni, nel XII capitolo dei Promessi sposi, allude alle vicissitudini subite dalla statua del re Filippo II collocata a piazza Mercanti a Milano. Simbolo dell’assolutismo spagnolo, ben raffigurato dal «viso serio, burbero, accipigliato» del monarca, nel riverbero italiano dei furori rivoluzionari di fine Settecento, al monumento fu modificata la testa, sostituito lo scettro con un pugnale così da trasformarlo nella statua di Marco Giunio Bruto il cesaricida, nume tutelare dei tirannicidi di ogni tempo. Non fu l’ultima metamorfosi. Come sapidamente racconta lo scrittore, passati pochi anni, «certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie».
Bruto non è un semplice personaggio storico, ma è qualcosa di più e di diverso: è un vero e proprio simbolo e come tale è stato interpretato nei secoli. Amato senza mezze misure, fu trasformato in un santo laico della libertas già dai contemporanei, in gara con lo zio Catone l’Uticense il «martire», suicidatosi dopo la vittoria di Tapso del 46 a.C. che vide il consolidamento politico di Cesare, ormai avvertito come irreversibile, col rischio della trasformazione della repubblica aristocratica in regno autocratico, sul probabile modello dei regni ellenistici, in cui era centrale l’idea della natura divina del sovrano, e sull’esempio, ingombrante, ma imprescindibile, di Alessandro Magno. E, in questo segno, non mancarono appropriazioni tanto idealmente generose quanto storicamente forzate del mito di Bruto, prima da parte degli Umanisti (si pensi al dibattito sul repubblicanesimo che attraversa in particolare Firenze tra Quattro e Cinquecento, trovando poi plastica raffigurazione nel celebre busto del cesaricida a opera di Michelangelo) e poi appunto durante la Rivoluzione francese (noto è l’apprezzamento di Robespierre che condivideva col romano l’assenza di ogni compromesso che avrebbe potuto snaturare l’ideale rivoluzionario).
Ma Bruto fu anche odiato con altrettanta visceralità. Dante, ad esempio, lo sprofonda nel cuore dell’inferno (peraltro pochi anni dopo che Tommaso d’Aquino aveva giustificato, sul piano teologico, la liceità del tirannicidio), maciullato per l’eternità da Lucifero al pari di Giuda, traditori entrambi dell’ordine naturale imposto da Dio, l’uno della divinità, l’altro di quell’impero universale di cui Cesare è l’ipostasi che trascende la storicità del personaggio per diventare, anch’esso come Bruto, un simbolo «bifronte» (tanto dell’uomo forte al potere, quanto del suo contrario, il tiranno liberticida da abbattere senza pietà).
Bruto, paradossalmente, è un po’ l’alter ego di Cesare: l’uno non può esistere senza l’altro; nella perenne dialettica della storia sono reciprocamente necessari. Cesare, come detto, è l’archetipo dell’assolutismo plebiscitario e carismatico – non a caso fu ammirato e imitato da personaggi come Bonaparte o Mussolini – che facilmente è percepito come «tirannide» da abbattere in nome della «libertà», parola peraltro tanto nobile quanto facile oggetto, ora come allora, di strumentali manipolazioni. Bruto è colui che porta a termine questo piano eliminando il tiranno nelle fatidiche Idi di marzo del 44 a.C.: è il «liberatore» da amare, esaltare e, se il caso, imitare. Ma, tolti i lustrini del mito, non sono mancati quanti vi hanno visto nient’altro che un assassino, pronto ad ammantare di idealità eroiche rivalse più prosaicamente personali, per di più con la taccia di ingratitudine verso la «clemenza» dimostratagli da Cesare dopo la partecipazione, tra le file dello sconfitto Pompeo, alla battaglia di Farsalo del 48 a.C. (come gli rinfacciarono già molte delle fonti antiche). Oppure, come genialmente raffigurato da Shakespeare, vi hanno scorto l’«uomo d’onore» in preda al dubbio, una sorta di proiezione antica di Amleto in perenne bilico tra ideale e reale.
Sul Bruto della «storia» indaga ora la bella e documentata biografia di Roberto Cristofoli, di recente apparsa per la nota serie dei «Profili» della «Salerno Editrice» (pp. 305, e 23,00). L’autore, docente di Storia Romana all’Università di Perugia, è un apprezzato esperto del periodo tardo repubblicano e della prima età imperiale, cui ha dedicato studi e monografie: si muove, pertanto, con assoluta competenza nel ginepraio delle fonti, dall’epistolario ciceroniano, alla biografia di Plutarco, alla storiografia greca (Nicola di Damasco, Appiano, Cassio Dione), oltre che nel mare magnum della bibliografia critica contemporanea.
Cristofoli è attento a cogliere la natura complessa del personaggio Bruto: politico abile nel destreggiarsi, con autonomia di giudizio, tra le parti contrapposte dei fedeli alla repubblica aristocratica e all’ideale di libertas, che ne garantiva l’autonomia di potere, e, dall’altro lato, di Cesare e del suo «cerchio magico» (Marco Antonio in primis) sempre più ingombrante e sprezzante verso le istituzioni tradizionali. Ma Bruto fu anche intellettuale di razza, seguace dello stoicismo in filosofia e dell’atticismo in retorica, coinvolto in un lungo dialogo intellettuale con Cicerone, col quale intessé una fitta corrispondenza e che dedicò a Bruto alcune opere, tra cui l’omonimo dialogo sulla storia dell’eloquenza romana (il Brutus). Più complesso il confronto politico, tenuto conto dell’appoggio che Cicerone diede al giovane Ottaviano, visto con sospetto da Bruto come potenziale «tiranno» alla stessa stregua di Marco Antonio, avversato invece con veemenza da Cicerone che contro di lui scrisse le durissime, e per lui fatali, Filippiche.
Di certo a Bruto mancarono le istanze democratiche che pure avevano segnato molti personaggi dell’aristocrazia romana, a iniziare dai Gracchi e dal loro tentativo di riforma agraria. La libertas di cui fu paladino, con un’evoluzione ideologica e politica che il libro dimostra bene (soprattutto negli ultimi anni, prima dello scontro finale a Filippi nel 42 a.C.), rimase sempre chiusa nel recinto della sua classe che temeva di perdere i secolari privilegi a favore dell’uomo forte. Ma l’uccisione di Cesare, forse anche suo malgrado, consacrò nei secoli Bruto come paladino della libertà universale; ora Roberto Cristofoli ce lo riconsegna alla storia.
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