Il nome di Bruno Muel dice poco probabilmente in Italia, eppure nell’esperienza di questo operatore e regista, morto qualche giorno fa a 87 anni, si racchiude moltissimo di quell’esperienza di un cinema militante in profondità, non solo cioè nella scelta dei soggetti ma soprattutto nella fabbricazione di uno sguardo capace di restituire senso, sentimenti, contraddizioni di un’utopia e delle sue sconfitte. Muel è l’esperienza del cinema collettivo e condiviso con gli operai del gruppo Medvedkine (Week-end à Sochaux, 1971), è il racconto delle Farc (Camilo Torres, 1965), del neocolonialismo in Africa (Sangha, 1967), del colpo di stato in Cile e del funerale di Neruda (Septembre chilien, 1973), dell’indipendenza angolana (Guerre du peuple en Angola, 1975), di cui prova a restituire gli accadimenti con uno sguardo libero dai dogmi ideologici e attento all’umanità.

Bruno Muel era nato il 30 aprile del 1935 a Saint-Cloud (Hauts-de-Seine), famiglia borghese, vive poco più che bambino l’esperienza della seconda guerra mondiale, e da ragazzo quella della guerra di Algeria, mandato come tanti altri giovani francesi a combattere per mantenere il controllo della colonia. Un’esperienza che sarà determinante nelle sue scelte future, che lo vedono sempre schierato contro le ingiustizie, e determinato a non fare mai della sua macchina da presa un’arma.

«Filmare» non «sparare» è questo il punto di vista del guerrigliero Muel. Che entra nel Partito comunista francese nel 1969 – e vi rimane fino al 1974, uscendone al  rifiuto del partito di distribuire Settembre cileno, realizzato col Gruppo Medvedkine, filmando nelle strade di Santiago, e tra i suoi abitanti attoniti dopo il golpe sanguinario di Pinochet.
Critico, indipendente, consapevole del potere delle immagini, l’occhio di Muel è sempre pronto a cogliere la storia, i suoi movimenti, le sue rivoluzioni. Lo ritroviamo così a Algeri, nei giorni dell’indipendenza algerina, che filma insieme a Marceline Loridan e Jean-Pierre Sergeant per Algérie, année zéro,1962. Con la macchina a spalla e l’uso del piano sequenza Muel sa come riprendere la folla: entra nelle manifestazioni, avvicina gli individui, riesce a restituire il sentimento e il respiro di una collettività. Si pone vicino ai volti, ai corpi empatico, mai retorico, ne coglie la rabbia, il desiderio, la forza, la malinconia di una sconfitta.

INSIEME al Gruppo Medvedkine, a cui partecipano Chris Marker, Rene Vautier, Antoine Bonfanti, Jean Luc Godard, Muel lancia la scommessa di un’esperienza unica:l’appropriazione del cinema da parte degli operai delle fabbriche Peugeot di Sochaux e Rhodiacéta a Besançon, perché come aveva detto Marker dopo la proiezione davanti agli stessi operai di A bientot j’espere, sugli scioperi Peugeot, che aveva realizzato insieme a Mario Marret, un vero cinema militante non poteva che essere fatto dagli operai stessi – questi ultimi avevano criticato nel film un eccesso di romanticismo. I risultati – tra i quali appunto Week-end à Sochaux sono di grande libertà formale, con un passaggio fra finzione e documentario, realtà e utopia. Avec le sang des autres (1974), chiude l’esperienza Medvedkine di Muel – il film è ancora una critica spietata all’impero Peugeot che controlla le vite degli operai non solo alla catena di montaggio ma anche fuori, negozi, vacanze, case, tempo libero, in una nuova ripresa neoliberista dopo il 68 .
Da qui continua a scrivere libri – Le baume du tigre (1979) che è la sua autobiografia; Un charroi en profil d’espérance (1990) – gira dei film (Rompre le secret, 1982 sulla sua malattia) e lavora come produttore sostenendo i film di Renaud Victor (De jour comme de nuit, 1991) e Fernand Deligny, à propos d’un film à faire (1989)