«Comporre un’opera non è affatto un gesto generoso, un segno di apertura verso chi guarda o chi ascolta. Al contrario: è un puro e semplice atto di egoismo. È l’affermazione di una ferma e decisa volontà di espressione che non deve, non può, cercare alcuna forma di consenso. Se io scrivo un pezzo per orchestra o un lavoro teatrale per andare incontro al gusto di un pezzo di pubblico o di un settore della società non posso che fallire. Il mio lavoro deve innanzitutto piacere a me stesso, deve soddisfare la mia esigenza di coerenza. Se poi viene apprezzato o compreso anche da qualcun altro tanto meglio, ovviamente, ma non è affatto l’obiettivo principale che io mi pongo». È assai deciso, Bruno Mantovani: si esprime di getto, quasi accavallando le parole, in un italiano fluido, appena accarezzato da una dolce pronuncia francese, ma senza mai cadere nella maniera grottesca del «france-italien».

La rivendicazione della indipendenza tra stile e gusto si ritrova del resto non solo nelle parole, ma anche e soprattutto nella musica di Mantovani. Figlio di un eclettico e «irregolare» compositore di origine veneziana, Annunzio Paolo Mantovani, Bruno, nato nel 1974, ha seguito al contrario un cursus studiorum rigorosamente accademico che lo ha portato a vincere, giovanissimo, ben cinque primi premi al Conservatorio Nazionale Superiore di Parigi. Lo stesso Conservatorio del quale, ad appena 36 anni, nel 2010, ha raggiunto lo scranno più alto, quello di direttore, lasciato soltanto quattro anni fa. I doveri organizzativi non lo hanno mai distratto, però, dalla scrittura: Mantovani, oggi, sulla soglia del mezzo secolo di vita, possiede un catalogo delle opere vastissimo, con una particolare predilezione per il teatro musicale. Il suo costante e coerente polistilismo lo porta spesso a intarsiare la cosiddetta «musica classica contemporanea» con il jazz, la musica popolare di tradizione orientale, senza dimenticare le radici storiche della musica occidentale: Bach, Gesualdo, Rameau, Schubert, Schumann sono le sue stelle polari.

«Non amo affatto – prosegue Mantovani – l’espressione «musica contemporanea» che usiamo molto spesso anche in Francia accanto a espressioni più raffinate, ma meno diffuse come musique vivante o musique actuelle. Quando la si pronuncia le reazioni sono sempre allarmate, preoccupate. A volte di vero e proprio rifiuto. Ma del resto io non posso che scrivere la musica del mio tempo, esattamente come Mozart scriveva la musica del proprio tempo. E tutti e due, mi scuso per il paragone, siamo compositori «contemporanei». La differenza fra il suo e il nostro tempo è che mentre i compositori del Sette e Ottocento, per lo meno nel mondo occidentale, si riconoscevano in un sistema linguistico omogeneo, quello dettato dal sistema tonale, oggi ogni compositore adotta un suo proprio e personale stile compositivo. Se dovessi offrire un’immagine fedele della musica, ad esempio, dell’anno 1785, basterebbe mettere insieme quattro o cinque opere. Se invece dovessi disegnare il profilo dell’anno 2023 non sarebbero sufficienti, credo, cento opere diverse». Di questa crescente e ormai inarrestabile pluralità stilistica è uno specchio fedele anche la programmazione, o per meglio dire, la composizione, di una «creatura» alla quale Mantovani è molto legato, il Festival Printemps des Arts di Montecarlo che dirige ormai da due anni.

«Sì – conclude Mantovani – per me scrivere un’opera o programmare un festival ha lo stesso valore: si tratta di costruire, in entrambi i casi, un’architettura coerente e al tempo stesso varia, diversificata. Anche per questo il tema triennale che ho scelto per il festival di Montecarlo prende spunto da un celebre rondeau di Guillaume de Machaut che si intitola Ma fin est mon commencement. Unisco gli uni agli altri, gli esordi e i congedi dei compositori che amo di più. Opere prime e opere e ultime, legate da un filo che torna sempre su sé stesso, in una perfetta circolarità in cui il tempo e lo spazio si annullano».