Bruges, nei luoghi del selvatico
Triennale «Space of Possibility» reinventa la città delle Fiandre, in una sfida con la natura e la Storia
Triennale «Space of Possibility» reinventa la città delle Fiandre, in una sfida con la natura e la Storia
Pontile, punto di sbarco: questo probabilmente il significato della parola «Bruges». La città delle Fiandre, oggi patrimonio Unesco, che risorse nel XIX secolo quando fu autorizzata la costruzione del nuovo porto e fu data una continuità alla terraferma e il mare, antico sogno fiammingo, è diventata in questa primavera uno Spazio della possibilità. È accaduto grazie alla Triennale (visitabile fino al 1 settembre), che ha reinventato luoghi appartati e nascosti del centro storico e la sua frazione costiera, Zeebrugge, attraverso dodici installazioni che vedono dialogare, in una collaborazione spesso visionaria, architetti e artisti.
Space of possibility, infatti, titolo della rassegna del 2024 (a cura di Shendy Gardin e Sevie Tsampalla) coinvolge l’intera città come fosse un banco di prova, un’indagine aperta sugli anfratti del futuro, stringendola in un rapporto, a tratti burrascoso, con la natura non addomesticata. L’idea, nutrita dagli scritti di Rebecca Solnit e dalle sue battaglie contro «l’inesistenza», è quella di «riportare in primo piano storie perdute e dimenticate, creare connessioni fra la strada e le piazze, le persone e gli animali, residenti e passanti, in una continua sfida sociale ed ecologica», spiegano le curatrici. Come quegli stivali scolpiti dal colombiano Iván Argote che vediamo camminare (o riposare) sull’acqua di un canale, rovinati dal tempo, privi di un corpo che li abita e che richiamano alla mente le vicende del colonialismo, forse parte residuale di un monumento buttato giù da chi un tempo era emarginato.
Ormeggiate al Minnewater Bridge ci sono alcune piroghe: è l’opera Grains of Paradise della sudafricana Sumayya Vally, che ricorda la fioritura commerciale di Bruges nel XIV e XV secolo e nelle barche piene di erbe l’artista inserisce il pepe di Malagueta, o Afromomum, una spezia importata dal Golfo di Guinea (il «grano del paradiso», appunto) famosa per le sue proprietà terapeutiche.
Nel giardino che costeggia lo storico ospedale psichiatrico c’è invece Full Swing di Mona Hatoum (1952, artista libanese di origini palestinesi, vive a Londra). Si scende nell’Ade, nella terra scavata come una fossa, reggendosi a muretti precari di pietre e reti e proprio nel punto più claustrofobico si trova un’altalena, promessa di un ritorno verso l’alto, l’aria aperta, fuori dalla trappola di quella architettura della sorveglianza.
«Mi interessava restituire il significato di una limitazione del movimento. Lo spazio sotterraneo in cui si entra è inquietante, è foderato con griglie di metallo come gabbie e pietre – racconta Hatoum – ma poi si incontra qualcosa che permette di potersi liberare dalla sensazione di essere bloccati in quel buco. Mi piace la contraddizione e contaminare la sensazione di angoscia con una visione ludica, surreale e poetica. Ho cominciato a interessarmi alle strutture di contenimento e restrizione dei movimenti a Londra: sentivo che eravamo costantemente osservati dall’occhio dello Stato, come il Grande Fratello. Mi ha portato a pensare, in particolare, all’architettura delle prigioni, al panopticon, il sistema di controllo di Jeremy Bentham: si può applicare a qualsiasi municipio, istituzionale, inclusi i progetti abitativi. Così, a partire dagli anni ’90, ho iniziato a realizzare installazioni di grandi dimensioni che riguardavano i sistemi di contenimento e gli spazi oppressivi. In Full Swing volevo segnalare la capacità di uscire metaforicamente da quella esperienza, dondolando verso il cielo, fra il buio e la luce».
I giapponesi Shingo Masuda e Katsuhisa Otsubo hanno riattivato il parco dell’antico ospedale san Giovanni con una struttura che celebra i vuoti al posto dei «pieni» architettonici di Bruges – quelle facciate accostate una all’altra come un merletto e senza interstizi misteriosi a interromperne il ritmo. Lo hanno fatto utilizzando i materiali tipici, come i mattoni rossi (ben undicimila). «In Giappone, gli edifici non sono allineati. Abbiamo degli spazi vuoti in mezzo a causa delle restrizioni antincendio e per i terremoti. Abbiamo molti pertugi per fuggire. Non è tutto chiuso come fosse un cortile. Volevamo creare una sorta di luogo sfocato a Bruges, ristrutturando questo campo aperto, che risultava un po’ indefinito. Ci interessava che l’ambiente si legasse anche all’esterno e non fosse solo un parco verde».
In una corte che nei secoli d’oro ha ospitato anche una banca, svetta uno strano silos, un’architettura «spogliata», che mostra le sue «viscere», immaginaria stratificazione geologica di fossili, conchiglie, germogli in crescita. È l’installazione (magnifica) dello studio Ossidiana, sede ad Amsterdam, degli italiani Alessandra Covini e Giovanni Bellotti. Earthsea Pavilion (che non dimentica la fantascienza di Ursula LeGuin) «è un monumento a diversi tipi di suolo – spiegano – un organismo vivo. Lo abbiamo composto come fosse una tela e tutti i materiali hanno una loro storia». Nella sua forma, narra l’odore del mare (le conchiglie pescate nelle profondità del porto) e i giardini dell’età dell’oro dei Paesi Bassi «con le loro fantastiche opere di arte topiaria, siepi scolpite e sgargianti architetture di piante».
BEAUFORT24, L’ALTRA TRIENNALE SULLA COSTA BELGA
Inseguendo le maree e il vento del Nord
Un tram costiero che percorre tutti i 67 chilometri che affacciano sul mare e una costellazione di installazioni artistiche sparse (alcune ormai permanenti in un mosaico di presenze che costruiscono un museo diffuso e a cielo aperto) per esplorare il tema The Fabric of Life (a cura di Els Wuyts, fino al 3 novembre). Parallelamente alla Triennale di Bruges, diciotto artisti belgi e internazionali hanno trasformato il litorale fiammingo (dalla propaggine verso la Francia fino a Ostenda) in un paesaggio creativo che s’intreccia con i fenomeni naturali, le leggende antiche, i miti nordici per dare luogo all’ottava edizione della Triennale Beaufort24: l’itinerario proposto è un’immersione fra le dune, parchi, boschetti, percorsi ciclabili e pedonali. La sinergia di più comuni ha immaginato questa rete artistica per riconsegnare energia vitale nel corso delle quattro stagioni ai villaggi che si affacciano sul mare del nord, spesso abitati fittamente solo durante l’estate. A Zeebrugge, c’è un’opera che fa da liaison fra Beaufort24 e la Triennale di Bruges: è quel bunker tubolare con più entrate, scolpito da Ivan Morison in una zona di confine tra la spiaggia e la spuma delle onde. Star of the Sea è un monumento all’impermanenza del tempo, viaggiando in sintonia con le forze della natura: il vento, la sabbia e il ciclo delle maree levigano gradualmente l’installazione trasformandola in un «barometro del cambiamento», uno spazio pubblico percorribile, che gioca con luce, ombra, sentieri labirintici e odori selvaggi. Non a caso, c’erano molti bambini con la bassa marea ad addentrarsi nelle sue misteriose gallerie.
Fra una fontana che riflette l’azzurro del landscape fiammingo e si propone come piazza, una panchina che somiglia a una giostra décò che mette in connessione i passanti sul pontile di Beaufort 24
«Voglio fare qualcosa che ricordi una danza, come un vento che soffia attraverso le mie sedie monoblocco»: la finlandese Sara Bjarland presenta così il suo anti-monumento cittadino, privo di ogni retorica, che fa svettare, nella periferica rotonda del traffico, una colonna di anonime sedie in precario equilibrio, non più di plastica ma in bronzo, per resistere alle intemperie assurgendo a una dimensione storica. Gazing Ball, invece, è l’opera del duo Lucy e Jorge Orta, nella città di Middelkerke. I visitatori saranno accolti dai contorni di una piccola architettura, aperta e senza confini, quasi un crocevia di passaggi liberi. In questo spazio di aggregazione (una rosa dei venti) una grande sfera riflette l’ambiente circostante, promettendo momenti di silenziosa contemplazione e un collegamento con il cielo (all’inizio, doveva essere installata vicino una vecchia stazione radio di Ostenda). «Per noi è una scultura sociale», dice Lucy Orta.
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