Guarda un po’ a Shakespeare, un po’ a Jane Austen, un po’ a Cenerentola, ci mette un po’ di pettegolezzo, qualche intrigo, molto moralismo di epoca Regency, un po’ di sesso agognato e un po’ di femminismo d’antan (entrambi molto soft), tanti colori vivaci e pastello, fru fru, balli, feste, patrimoni persi e patrimoni accresciuti, palpitazioni, una cronista di costume in incognito, abbonda con l’inclusione razziale perché la regina e molti protagonisti sono di colore o meticci e va bene, perché anche se questo è un gigantesco falso storico, nelle serie televisive e nei film di finzione tutto è ammesso e possibile.

Ma, soprattutto, al centro di tutto ci sta il market marriage, quel mercato del matrimonio che la già citata Jane Austen ha raccontato nei suoi sei romanzi, scavando con sottile perfidia nella piscologia dei personaggi e nei costumi sociali a lei contemporanei.

Il grande minestrone che ho appena descritto è Bridgerton, una delle serie di maggior successo di Netflix, arrivata alla seconda stagione e ispirata a nove romanzi che l’autrice americana Julia Quinn (pseudonimo di Julie Pottinger) ha pubblicato fra il 2000 e il 2013.

I titoli dei romanzi, da Il duca e io a Il visconte che mi amava fino a Tutto in un bacio, fanno pensare più agli Harmony che a una letteratura della complessità. La serie televisiva ci aggiunge l’abilità della complicazione, ovvero quel meccanismo narrativo che, con sapienti montaggi, inserisce imprevisti per allungare il brodo e tenere incollato lo spettatore.

L’enorme successo mondiale di Bridgerton ha fatto fiorire, oltre a una grande curiosità sugli attori, un mercato collaterale di serie analoghe, suggerimenti su abiti e maquillage. Se vedete in giro ragazze con pelli diafane esaltate da trucchi apparentemente invisibili, camicie di pizzo, giacche in broccato o abiti stile impero, sapete da dove può venire l’ispirazione.

Finché il tutto si ferma alla moda, siamo dentro il gioco del marketing che di mestiere quello fa, vendere oggetti e prodotti. Se invece guardiamo al modello dei rapporti proposti, l’operazione è più subdola e sottile.

Alcune ragazzine, già abilissime a intuire i meccanismi delle serie tv, hanno definito divertente la regina di colore e palloso Antohny, il protagonista della seconda stagione che solo dopo molti trambusti interiori, e credo nove puntate, si decide a capire chi ama e vuole sposare davvero. Tutto ciò fa ben sperare, nel senso che, se è così, siamo di fronte a una generazione che guarda le favole, si diverte, ma ha già capito che non bisogna prenderle alla lettera.

Bisognerà invece vedere quanto è pervasivo il messaggio sul mercato del matrimonio che viene raccontato come la massima ambizione per una donna, e qui la serie è ambigua, perché da una parte smonta la verità storica e i cliché sulla razza mostrando nobili dalla pelle nera, dall’altra lascia intatti quelli sul rapporto fra i sessi, sulla condizione della donna, sul potere e denaro gestito dai maschi e infatti è sempre lui che ha i soldi, sempre lui che chiede la mano, sempre lui che sceglie chi sposare, almeno in facciata. Lei non ha nemmeno il diritto di lavorare, a meno che non sia una straniera, una popolana o una di facili costumi.

Aspettiamo, fiduciose, una serie in cui avvenga il contrario perché se siamo capaci di far finta di credere che nel primo Ottocento in Inghilterra c’era una regina di colore, lo siamo anche per immaginare un ballo di debuttanti maschi dove tocca alle signore invitare, ai signori palpitare tormentando il carnet de bal, e poi magari finire a letto senza sposarsi e perdere l’onore.

mariangela.mianiti@gmail.com