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Briciole, canti e pezzi di rivolta

Briciole, canti e pezzi di rivoltaElena Bellantoni, «On the breadline», Istanbul

Intervista L'artista e performer Elena Bellantoni racconta il suo progetto «On the Breadline», che il 4 dicembre verrà presentato al Maxxi. «La parola breadline è ambigua in inglese: è sia la linea del pane ma anche quella della povertà che io declino come linea di crisi»

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 30 novembre 2019

Elena Bellantoni è una di quelle rare artiste e performer che sa trasformare la politica in un atto poetico di lunga durata. Riesce a insinuarsi profondamente tra le pieghe del quotidiano sulla scorta di gesti misteriosi, a volte rituali, altre ancora magici. Nata nel 1975 (a Vibo Valentia, vive e lavora tra Roma e Berlino), Bellantoni il 4 dicembre sarà la protagonista del focus che si terrà nella Videogallery del museo Maxxi, con la sua «collezione di storie» e la proiezione di cinque video che ripercorrono i suoi ultimi anni di produzione. Sarà l’occasione anche per presentare il nuovo lavoro, On the Breadline.
«On the breadline» è un progetto artistico itinerante che attraversa i confini ma ha come filo conduttore il «pane» e la sua accidentata biografia. Perché è stato individuato proprio questo cibo?
Il pane è l’oggetto grazie al quale costruisco la mia narrazione nell’attraversare i diversi paesi che considero legati, in qualche modo, dalla cultura mediterranea. L’idea è stata quella di far dialogare alcuni luoghi «caldi» – Belgrado, Istanbul, Atene, Palermo – così che possano raccontare il nostro vivere contemporaneo. La mia breadline tenta di creare un ponte tra civiltà diverse, cresciute su sponde opposte dello stesso mare, ma accomunate da un retroterra culturale molto simile.
Ho deciso, quindi, di seguire la linea tracciata dal grande scrittore serbo/croato – che incontrai a Roma più di dieci anni fa durante una sua conferenza e scomparso da poco, Predrag Matvejevic. «Mi sono reso conto di come culture lontane avessero nel grano delle radici in comune. È la storia delle prime farine dei nomadi, delle sacche dei viandanti e del pane dei frati: che è lo stesso dei mendicanti e dei carcerati». Così Matvejevic narra il grandioso vagabondaggio del grano nel suo libro Pane nostro. Questa sua «geopoetica» ha segnato sicuramente l’avvio del mio percorso.
Il pane non rappresenta solo il momento del convivio e del confronto tra genti diverse, ma è legato alle rivolte popolari che si sono succedute in questi paesi. La rivolta del pane è il nome che viene dato a movimenti di protesta che hanno unito popolazioni differenti nel nome della giustizia sociale. Un semplice pezzo di pane racchiude in sé elementi vitali: la terra che genera il cereale, l’acqua che impasta, l’aria che lievita, il fuoco che cuoce. Esso ha ispirato, nei secoli, poeti e scrittori di ogni luogo che ne hanno celebrato le virtù, i significati, la simbologia, le suggestioni, i sapori. Il grano è l’oro dei poveri. La grana è anche sinonimo di soldi, così come la pagnotta, la breadline è dunque una linea di povertà.

«Impastare il pane» è stato, in passato, un lavoro tipicamente femminile. Non a caso si parla di «lievito madre», pasta genitrice… Quali sono stati i suoi riferimenti?
Il testo su cui mi sono concentrata per iniziare questo mio lavoro è Bread&Roses che è il frutto di un discorso politico fatto dalla leader socialista femminista Rose Schneiderman, durante uno sciopero di lavoratrici negli anni Dieci del Novecento in Usa.
Lo slogan delle operaie  «vogliamo il pane ma anche le rose!» ispirò il titolo della poesia di James Oppenheim, divenne una canzone musicata da Mimì Farina nel 1974 e cantata poi – tra i tanti e le tante interpreti – anche da Joan Baez. È considerato l’inno delle lavoratrici e dei lavoratori. Il canto ha risvegliato in me l’intenzione di mettermi sulle tracce del significato del pane, per indagarlo nelle sue varie declinazioni, proprio nei paesi che ho attraversato.
Per esempio, tra le tappe della mia breadline c’è stata Atene. Girando in lungo e in largo dal suo centro verso la costa del Pireo, e facendo ricerche sul territorio, ho incrociato molte fabbriche chiuse, anche a Eleusi, piccola cittadina subito fuori la capitale greca. I misteri eleusini hanno creato un cortocircuito nella mia testa, ho messo subito a fuoco Demetra, dea della Madre terra e quindi del grano, chicchi che nascondono un mistero. L’etimologia di questa parola si riallaccia al greco mystérion, segreto, enigma. La divinità è colei che custodisce l’arcano: tutto ciò mi ha spinto ad andare fino in fondo al mio percorso, individuando le briciole per capire come il pane sia il simbolo di tante narrazioni. Demetra rappresenta la dea dell’agricoltura, costante nutrice della gioventù e della terra verde, artefice del ciclo delle stagioni, della vita e della morte, protettrice del matrimonio e delle leggi sacre. Il pane è donna che impasta con il suo «lievito madre», è una strada da seguire, è condivisione e lotta. Il pane è anche lavoro, simbolo di rivolta, di forza, è Mediterraneo. «L’impastare» è una riflessione sullo sporcarsi le mani, la metafora di una partecipazione attiva nella vita.

Come viene narrata nel tempo la «strada del pane»?
On the breadline è un progetto di natura itinerante, molto complesso e senza l’Italian Council – il bando del Mibact che ho vinto nel 2018 – non avrei mai potuto realizzarlo. Lavorare in quattro paesi come l’Italia, Serbia, Grecia e Turchia ha richiesto un grosso investimento di risorse ed energie. On the breadline segue il fil rouge della mia ricerca artistica. Si muove dall’investigazione sul territorio, si costruisce attraverso la relazione e l’incontro e prende forma con il video, la performance e l’installazione. L’elemento della lingua e della traduzione è centrale in questo processo di ricerca. La lingua è un soggetto identitario e la traduzione diventa lo spostamento e la materia di scambio e tensione. L’elemento «musicale» è stato un «tema» nuovo, che ha amalgamato e impastato territori diversi, facendo emergere caratteristiche comuni e differenze.
La parola breadline è ambigua in inglese: è sia la linea del pane ma anche quella della povertà che io declino come linea di crisi. «Crisi» è un termine abusato nel nostro presente, viene sempre utilizzato per alimentare conflitti e paura: è un concetto ambivalente perché si manifesta non soltanto attraverso una spinta interna, ma con alcune condizioni «esterne», che invece sono imposte. I paesi che ho scelto per il mio progetto hanno subìto e continuano a subire, per vari motivi, tensioni di questo tipo: dalla crisi balcanica a quella greca, alle attuali posizioni turche che provocano squilibri, con modi violenti, in un intero paese e in quelli vicini – Italia e, in particolare, la Sicilia, luogo di sbarco e porta del Mediterraneo. La mia breadline pedina queste tracce: s’inoltra in sentieri in cerca di visioni, semina granelli inseguendo avvistamenti e nuovi punti di vista, tenta di definire il presente in cui viviamo.

Fra i paesi inseriti, appunto, c’è anche la Turchia, oggi al centro di un disastro politico e umanitario. Non pensa si debba boicottare o forse è un gesto radicale anche andarci?
Credo che quello che sta succedendo in Turchia sia molto grave e che la comunità internazionale debba intervenire per fermare le atrocità volute dal presidente Erdogan, che non solo sta brutalmente attaccando il popolo curdo, ma anche mettendo in discussione il diritto di libertà all’interno della Turchia stessa.
Molti artisti, intellettuali, scrittori e altre persone che non si allineano al «regime» vengono di fatto messi a tacere, in modo anche duro. In questo momento non so se ci sarà un’opportunità di replica, di «redenzione», più mi inoltro in questo sentiero tracciato dalle briciole di pane e più mi rendo conto della complessità in cui viviamo e dei giochi di potere di cui siamo spettatori. In questa parvenza di democrazia dominata dal capitalismo globale, dal consumo di cui siamo ormai tutti dipendenti, dovremmo forse iniziare ad assumere posizioni scomode, fuori dalla retorica, dal pietismo e dal qualunquismo. Ma come emanciparci da tutto questo? Siamo anestetizzati al dolore, alla sofferenza ma anche alla ricerca della felicità che è stata sostituita dal benessere. Abbiamo costruito il nostro piccolo orto, le nostre certezze identitarie, pensando di essere sempre nel giusto e fidandoci del pensiero dominante. Quando abbiamo capito che qualcosa non andava, siamo comunque diventati testimoni passivi di guerre di confine, genocidi, firmando un accordo per una «tranquillità preventiva», non rendendoci conto di essere in libertà vigilata.

Nell’ultimo decennio stiamo assistendo all’insorgere di nuovi populismi che regolano la politica generando insicurezza e spingendo sulla paura, non ultimi i fatti del Cile, un paese a me molto caro – dove ho prodotto miei lavori. Anche qui, dopo gli anni di dittatura di Pinochet, sta tornando la violenza in un clima di austerity e repressione. Per me non è stato affatto semplice lavorare in Turchia poiché On the breadline ha un forte impianto «politico/poetico»; alcune ragazze che avrebbero dovuto partecipare al coro e alle riprese non hanno potuto farlo. È stato loro proibito dai datori di lavoro. Dall’altra parte, l’esperienza umana (che è fatta di incontri), è stata intensa e mi ha restituito molto: venticinque donne hanno voluto interpretare il canto di protesta proprio nell’antico cantiere navale del Corno d’oro – simbolo della Turchia moderna di Ataturk – che presto scomparirà per dare spazio 2 porti di yacht, 2 hotel di lusso a 5 stelle di 400 camere ciascuno, una moschea di mille capacità, un centro commerciale e altre unità simili… il progetto è una grande opera che rappresenterà il nuovo «sultano» di Istanbul. Ho concluso il mio intervento in città con una performance in solitaria, Soap Opera. Sotto un sole a picco tra il monumento alla Repubblica scolpito dallo scultore italiano Pietro Canonica e la nuova moschea di 1500 mq. voluta dal presidente, ho deciso di iniziare a pulire, con un secchio e due spazzole, piazza Taksim. Un’azione secca e semplice nel mezzogiorno di fuoco tra me e la città. Nel catino dell’acqua ho versato qualche goccia di sapone che ho montato a neve, come se stessi preparando una torta. Un gesto domestico quello del pulire che, fuori casa, assume la forma di una protesta silenziosa: la reale fatica di un lavoro impossibile, il tentativo di lavare una piazza così enorme, il dramma di un luogo che ha accolto proteste durante il 2013 contro il premier turco Erdogan e la sua scelta di demolire il vicino Gezi Park per costruire, anche qui, una caserma militare e un centro commerciale.

Nel focalizzare la sua interazione con le donne lavoratrici sulla musica si è documentata sui cori collettivi e le lotte passate?
Più di un anno fa stavo camminando vicino alla Pelanda a Testaccio, qui a Roma, e ho sentito delle voci venire da una stanza. Mi sono affacciata e ho trovato un coro che stava cantando, era il Coro inni e Canti di lotta del Laboratorio di canto politico della Scuola popolare di musica di Testaccio, diretto da Sandra Cotronei. A volte succede che le cose ti «incontrano». Devi lasciar spazio e seguirle. Così ho fatto.
Funzione principale di questi canti è proprio quella di denunciare, protestare, manifestare indignazione e disapprovazione, ricordare e tramandare fatti di cronaca ed esperienze di vita.  Sandra Cotronei ha riscritto tutta la partitura di Bread&Roses e io con ogni direttore e direttrice del coro – Dragana Javanovic, Maria Michalopolou, Garip Mansuroglu, Monica Faja – nei vari paesi, ho fatto la traduzione e l’adattamento musicale. Sandra mi ha accompagnata in quest’esperienza di scrittura e di ascolto, di note e contralti, di intensità e di senso rispetto a ciò che desideravo e avevo in mente.
La dimensione della protesta, dello sciopero in generale per me è potentemente collettiva, non solo individuale. Il gruppo ha una forza che il singolo non possiede: per questo ho scelto di coinvolgere cento donne. Il coro offre questo effetto, somiglia a un camminare insieme. Forse l’unica cosa che resta da fare, in questa idea di futuro che non sta più in piedi da sola e in questo presente complesso e difficile da decifrare, è iniziare a camminare all’unisono.

Come immagina la conclusione del progetto, affidata a quale immagine o luogo?
Breadline è un progetto «generativo»: a Istanbul è nato un nuovo coro il 21Choir legato alle proteste femministe, ad Atene le ragazze e le mamme del coro, abitanti del quartiere operaio di Keratsini, grazie alla Breadline sono partite per un viaggio per un concorso canoro, lo stesso in Serbia e a Palermo il coro di Monica Faja vorrebbe venire a Roma per fare uan performance, Pane e Rose.
Sarebbe bello mettere insieme tutte queste donne in un unico luogo. Succederà in modo immateriale con la mia istallazione video a 4 canali – uno per ogni paese – che andrà a comporre il lavoro finale. Immagino un’installazione di natura immersiva in cui lo spettatore è al centro della stanza e alle quattro pareti scopre gradualmente i luoghi distopici in cui queste donne agiscono e lentamente arriva la voce del canto che, a un certo punto, creerà una cacofonia disturbante.
Il 4 dicembre presenterò al museo Maxxi il libro On the Breadline, edito da Quodlibet – che si può considerare anche il mio diario di viaggio – con gli interventi di Riccardo Venturi, Stefano Chiodi, e della curatrice Benedetta Carpi De Resmini. Il progetto è stato promosso da Wunderbar Cultural Project e gestito da Manuela Contino.
Insieme alla videoinstallazione, ho prodotto un disco in vinile 33 giri, dei piccoli pani di ceramica per ogni paese, dei disegni a china., quattro performance documentate con video. La mostra sarà nel 2020, sicuramente in Italia e poi mi piacerebbe riportare anche indietro il lavoro finito nei paesi dove sono stata.
Questa strada che ho battuto mi ha accompagnata, le parole del canto si sono incarnate in gesti, l’immaginazione ha preso forma in luogo fisico e «the right to life, and the sun and music and art» ha scandito il mio itinerario.

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