Cultura

Brianna Carafa, scrittrice riscoperta

Brianna Carafa, scrittrice riscopertaUn ritratto di Brianna Carafa

NARRATIVA «La vita volontaria», un esordio letterario che arrivò nel 1975 nella cinquina dello Strega e che ora viene ripubblicato da Cliquot con una prefazione di Ilaria Gaspari

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 19 agosto 2020

Era il 1975, una scrittrice aveva da poco esordito con il suo primo romanzo e già si era ritrovata nella cinquina del Premio Strega. Era il 3 luglio nella classica cornice di Villa Giulia, a Roma, la scrittrice si chiamava Brianna Carafa e alla votazione finale arrivò ultima, ricevendo solo 3 voti, per il suo libro La vita involontaria (Einaudi). Vinse quell’anno Tommaso Landolfi con A caso (Rizzoli), l’unico libro riapparso negli scorsi anni in libreria tra i cinque che provavano a contendersi il Premio (Sellerio 2018). Con lui, oltre a Brianna Carafa: lo scrittore e poeta abruzzese Eraldo Miscia, che concorse con Il Gran custode delle terre Grasse (Rusconi), il quale ebbe riconoscimenti e opinioni favorevoli ma dopo quella annata non venne più ristampato; Laudomia Bonanni, scrittrice anche lei abruzzese che era stata scoperta dai coniugi Bellonci con il loro primo e unico Premio inedito anni prima e che, con Vietato ai minori, raccontò la sua esperienza nelle carceri minorili; Vittoria Ronchey con Figlioli miei, marxisti immaginari che è la sola ancora in vita tra i partecipanti di quell’anno e che ha dedicato molta della sua attività alla traduzione di scrittori francesi.

DI TUTTI LORO, solo Landolfi sopravvisse nel canone letterario del nostro Novecento, gli altri e le altre (ben tre donne in finale) faticarono per farsi trovare nuovamente in libreria e vennero quasi del tutto dimenticati nel corso degli anni (singolare e terribile il caso di Bonanni a cui Bompiani rifiutò l’ultimo e longevo romanzo e che si ritirò a vita privata abbandonando la scrittura).
Perché il libro di Carafa arrivò ultimo noi non possiamo saperlo e non ci interessa. La vita involontaria è un recupero letterario prezioso, fulgido e perfetto, che dal 1975 conquista di nuovo le librerie e lo fa adesso grazie al lavoro della casa editrice Cliquot (pp. 144, euro 16), la quale dalla sua fondazione continua a ripescare dal passato donne e uomini di valore, libri che ancora oggi a rileggerli non perdono smalto e artigli.

CALVINO, come appare nella quarta di copertina, definì il talento della scrittrice «chiaro e fermo», e per farsi un’idea più nitida del suo pensiero sull’autrice si può andare a sfogliare la raccolta di lettere I libri degli altri (in cui è stata pubblicata la corrispondenza del Calvino editor e curatore di collana per la casa editrice Einaudi) alla ricerca di una sua menzione di Carafa, ma le lettere del ’75 sono pochissime e della scrittrice non v’è traccia. Proprio seguendo le tracce e le ombre di una autrice che morì presto e poté pubblicare solo due romanzi, hanno lavorato l’editore e anche Ilaria Gaspari, che ha scritto la prefazione emozionata al romanzo ed è andata alla ricerca di notizie nella casa dei suoi eredi. Ritrovare una scrittrice e scoprirla, ridarle voce, è una sensazione stordente e anche una responsabilità.

CARAFA QUINDI, grazie a questa pesca miracolosa, riappare e con lei il racconto di una vita borghese che sembra seguire le ingerenze altrui, le opinioni, le ossessioni, i disegni degli altri, diventando così una vita involontaria, una vita che cammina sul perimetro di un cerchio e deve tornare nel punto da cui è partita.
La scrittura di Carafa è precisa e affascinante, e il suo protagonista, il giovane Pintus, orfano che cerca se stesso con angoscia, ragazzo incandescente che distrugge e forgia la propria identità, è vivido e tremendo. Un’anima lanciata nel mondo al seguito dei desideri altrui che modella la propria vita con dolore e poi con dovizia, fino a diventare l’uomo che avrebbe voluto, l’uomo che si tiene in equilibrio precario sul filo tra sanità e follia.

IL ROMANZO ILLUMINA le feste stordenti dei giovani studenti universitari degli anni Settanta, le figure di alcuni psicoanalisti considerati quasi delle divinità (gli intoccabili «che non hanno bisogno di storie per sopravvivere»), e i tetti rossi di un manicomio a cui il bambino Pintus guarda come guarderebbe a un arcano, a una magia.
Riaprire questo romanzo vuol dire tornare al 1975, a quella estate e a quella donna che aveva appena esordito e che in pochi avrebbero votato al Premio Strega. Ma i voti non contano, la morte neanche: i libri tornano, come le scrittrici.

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