«Se sei del New Jersey scrivi trenta libri, vinci il Nobel e vivi fino ad avere i capelli bianchi e novantacinque anni, è altamente improbabile, ma non impossibile, che dopo la tua morte ti intitolino un’area di sosta sulla Jersey Turnpike. E così quando te ne sarai andato, potrai essere ricordato. Ma soprattutto dai bambini piccoli, quando si fanno avanti e chiedono ai genitori ‘Fermatevi per favore a Zuckerman. Devo fare pipì’. Per uno scrittore del New Jersey è il massimo dell’immortalità che puoi sperare di avere». Così lo scrittore del New Jersey Philip Roth si esprimeva in La controvita tramite le parole di uno dei suoi alter ego letterari, Nathan Zuckerman. Il New Jersey per molti americani è la provincia delle barzellette e dei luoghi comuni. In realtà è una terra infinitamente rappresentata in film, libri e canzoni che ha partorito artisti, scrittori, attori, musicisti, songwriter: Philip Roth, Paul Auster, Frank Sinatra, Bruce Springsteen, Whitney Houston, Meryl Streep, Jerry Lewis. Solo per citare i più celebri. Forse a loro un giorno qualcuno dedicherà una piazzola di sosta su qualche tangenziale.

NON IN LIZZA

Brian Fallon per ora non è in lizza per cambiare la toponomastica del suo stato, ma è anch’egli figlio del New Jersey, di New Brunswick, e ha respirato sin da piccolo quell’aria di provincia spesso problematica all’ombra delle grandi metropoli. Nato all’inizio degli anni ’80, Fallon si è fatto conoscere come leader dei Gaslight Anthem, band che nel 2008 emerse come una delle più interessanti novità del rock Usa con l’album The ’59 Sound. La loro formula tra punk, tradizione e blue collar rock valse loro subito la stima del più illustre compatriota-musicista Bruce Springsteen. Da ricordare che i Gaslight Anthem fanno parte di una scena che ha tra gli esponenti band ormai in piedi dalla fine degli anni ’80 come Bouncing Souls o Mucky Pup e di ultima generazione come Thursday, Titus Andronicus e Screaming Females. Anche se la scorsa estate hanno celebrato con un tour i dieci anni di quell’album, ora però la priorità di Brian Fallon è una carriera solista che lo sta trasformando in una delle voci più autentiche e amate in Europa della nuova canzone d’autore statunitense. Quando gli si chiede del New Jersey dà una risposta degna dell’understatement così ben descritto da un maestro come Roth. «Penso – dice – che c’è una percezione diversa, quando guardi da fuori. Sì forse c’è tanta gente di talento che proviene da lì, ma non penso che si possa parlare dell’esistenza di una comunità artistica. Si pensi per esempio a Springsteen e a quello che lui stesso ha raccontato. Il mondo delle sue canzoni è un universo che lui ha creato, che non esisteva prima che lui ne scrivesse. Ha creato qualcosa dal nulla per soddisfare un bisogno che c’era in lui. È qualcosa che lui racconta e che scrive anche nella sua biografia. Se ci pensi bene gran parte delle canzoni sul New Jersey esprimono la voglia di andarsene, di fuggire. È il posto in cui vivo e a cui sono affezionato, ma non l’ho mai percepito come un luogo di grande fermento». L’immaginario a cui fa riferimento Fallon è quello di Greetings from Asbury Park, il disco di esordio di Springsteen che Fallon elenca tra i suoi album preferiti di sempre. Gli altri, «ma dipende sempre da quando me lo chiedono – chiarisce – sono Freewheelin’ Bob Dylan, Abbey Road, Layla and Other Assorted Love Songs e Sticky Fingers». Tutti classicissimi pubblicati anni prima della sua nascita. «È la musica con cui sono cresciuto. Ascolto tanta musica di oggi, ma è quella a cui sono più legato­. Mia madre ascoltava questi dischi in casa tutto il tempo. È la musica che ascoltavo prima di qualsiasi altra cosa. Quella e la musica di chiesa. Mia madre cantava nei cori parrocchiali, prima in una chiesa cattolica e poi in una protestante, e io la accompagnavo sempre alle prove. La prima musica live che ascoltai».

L’esperienza con i Gaslight Anthem ha portato cinque album, bene accolti da critica e pubblico, l’ultimo dei quali Get Hurt del 2014 ha segnato una lunga pausa che preannuncia una fine della loro attività in studio. «Il tour della scorsa estate – prosegue Fallon – è stato un episodio e siamo felici di averlo fatto. Ognuno di noi è impegnato in altri progetti. Siamo tutti convinti di aver fatto insieme un ottimo lavoro e non so se qualcuno di noi è in grado di aggiungere qualcos’altro. Non vogliamo neppure rovinare quello che abbiamo raggiunto. Non avrebbe senso pubblicare oggi qualcosa di approssimativo, che non reggesse il confronto con quello che abbiamo realizzato in passato». La carriera solista di Brian è iniziata nel 2016 con l’album Painkillers, il secondo capitolo è Sleepwalkers del 2018. La sua musica ha perso le ruvidezze del punk e la sua scrittura si è fatta più matura. «Invecchiando e facendo questo mestiere per più tempo – spiega – non necessariamente diventi migliore, ma impari meglio la tua arte. Scrivere canzoni per me è un po’ come fare le parole crociate, tenti di capire quali parole vanno e dove. Devi lavorarci. Io non ho idea dove andrò a finire fino a che non inizio. Devi però sempre trovare nuovi approcci, nuove strategie, sperimentare. E ogni volta impari qualcosa di nuovo. Se rimani incollato a una formula e cerchi di ripetere quello che ha funzionato in passato, e qualche volta può accadere, non è un bene. Posso partire da un’idea, ma per me è come un lavoro perché, come diceva Stephen King, ’l’ispirazione è per i dilettanti’».

ATMOSFERE DIVERSE

Così nei suoi dischi solisti Fallon si è distanziato dalle sonorità della sua band per cercare atmosfere diverse. Painkillers si avvicinava al folk e al country, in Sleepwalkers ci sono echi di Tom Waits, Springsteen e della Motown, ma c’è anche il suono del rock inglese anni ’60 (il padre di Fallon è britannico) e Elvis Costello.

«È divertente come spesso le mie canzoni vengano definite nostalgiche. In realtà non sono interessato al passato. Nei miei pezzi c’è sempre la voglia di guardare avanti, di cambiare la corrente, di influenzare quello che accadrà. Magari imparando dal passato. Ma non c’è nostalgia, c’è la mancanza di qualcosa che si sta cercando. Scrivo soprattutto di interazioni tra le persone, non solo relazioni romantiche. Ora ho anche due figli, una bambina di tre anni e un maschio di sei, e inizio a pensare anche più in grande, al resto del mondo». Ma il futuro dell’America non è incoraggiante, l’innominabile Trump è una minaccia: «Penso e spero che le cose non andranno male come la gente teme che andranno. I miei figli sono piccoli e il tempo è dalla loro parte. Questi due anni sono stati davvero duri. Mi viene in mente il comico Will Farrel che imitando George W. Bush disse, ’Adesso vi accorgete che non ero così male…’. È triste perché è vero. Ma penso che se la gente andrà a votare ci restano solo due anni. È strano, andando in tour vedi come gli Stati Uniti siano un paese diviso. Sulla costa est o ovest tutti la pensano in un modo e non sono contenti. Poi vai nel centro del paese e dicono, ’Questa è la cosa migliore che sia capitata’. Sono due posizioni completamente opposte. C’è divisione e un arroccamento sulle proprie idee e quando non c’è dialogo non è mai bene. Ma che posso dire io… sono solo uno che suona la chitarra».

Ma perché non provare a fare un disco politico? «Ad essere completamente onesto ci ho provato – ammette candidamente Fallon – ma non ci sono riuscito. Non sono riuscito a creare canzoni che fossero coerenti e compatte. Ammiro molto Bob Dylan così come mi piacciono molto alcune canzoni di protesta di Joni Mitchell e ci ho provato. Ma penso che se non riesci a fare bene una cosa non devi insistere. Amo molto l’hi-hop, ma non sarei mai in grado di fare una brano rap!». Intanto Fallon ha passato l’inverno impegnato in un tour in cui ha presentato le sue canzoni in set completamente acustici senza una band, inframmezzando i suoi successi a surreali monologhi con cui ama sdrammatizzare le sue esibizioni. Ha riempito piccoli locali e teatri collezionando un sold a out a Milano e un grande successo in tutta Europa. In paesi come la Germania, con i Gaslight Anthem o da solo, è una star. «Il pubblico europeo è sempre entusiasta. Penso che negli Usa il pubblico forse è un po’ viziato, tante band, tantissimi concerti. Qui invece c’è grande entusiasmo e tanta voglia, tanta fame di musica» dice Brian. «Ai miei concerti vedo tante facce felici e sono felice anche io».

FUORI I NOMI

Pessima reputazione, grande musica. «È meglio vivere in New Jersey con una vista su Manhattan che vivere a Manhattan con una vista sul New Jersey», recita una caustica battuta proverbiale. La cattiva fama del New Jersey dipende dalla vicinanza troppo stretta a una metropoli così accentratrice come New York, dalla fama di stato in cui la corruzione politica è una regola e da una serie di stereotipi cementati dalla cultura popolare. Basta ricordare i mafiosi Soprano o i supercafoni italo-americani dello show di Mtv Jersey Shore. Ma una rassegna di artisti di quello che viene definito «lo stato giardino», dipinge un quadro ben diverso.

FRANK SINATRA

Figlio di due emigranti, un palermitano e una genovese. Francis Albert Sinatra nacque a Hoboken, città affacciata all’Hudson, nel 1915. Ai tempi era una terra di frontiera e un ghetto per immigrati. E gli italiani erano quelli che occupavano l’ultimo gradino della scala sociale. «Era un mondo duro – ricorderà Sinatra – quando qualcuno mi chiamava piccolo sporco maiale, c’era solo una cosa da fare, rompergli la testa». Più che per i pugni passerà alla storia come «The Voice».

JOHN COLTRANE 

John Coltrane era di Philadelphia, ma il suo capolavoro e uno dei capolavori della musica del ’900, A Love Supreme, fu inciso nel dicembre del 1964 proprio in New Jersey in uno studio di Englewood Cliffs, a mezz’ora di macchina (senza traffico) da Central Park.

BRUCE SPRINGSTEEN

Con Sinatra senza dubbio uno dei figli più illustri dello stato. Il suo disco d’esordio Greetings from Asbury Park, N.J. (1973) non ne consacrò la fama, ma ne dimostrò il talento e l’immenso potenziale. Un’epica adolescenziale di provincia ambientata nella città della costa del New Jersey. Il posto dove un giovane proletario poteva permettersi di ambientare i suoi sogni. A una tappa di autostop da casa sua (strano a dirsi ma il Boss non ha avuto la patente fino a 24 anni), Asbury park è diventata oggi località di fama e tappa di un sempre più numeroso turismo springsteeniano: meta d’obbligo lo Stone Pony, il suo Cavern Club. Ma forse una delle più belle canzoni dedicate al suo stato è la tragica Atlantic City (1982), capolavoro di neorealismo musicale, messo in scena con una voce, un’armonica e una chitarra acustica.

PARLIAMENT 

George Clinton, cresciuto a Plainfield, esordì come autore per la Motown, ma si fece anche strada come artista sulle scene grazie al coloratissimo e imprevedibile collettivo Parliament (poi diventato Parlament Funkadelic), che lanciò un eclettico genere di black music che venne battezzato P-Funk, dove la P sta per psichedelica, ma anche per Plainfield. Fu proprio da un barbiere della città del New Jersey che nacque la storia della band. Il negozio era posseduto in parte da Clinton e i primi membri del gruppo, che diventerà col tempo un sodalizio tanto prolifico quanto fluido, erano impiegati nello staff.

GLORIA GAYNOR

Il Garden State è stato anche culla di una parte importante della scena R&B e disco-dance. A Newark nacque la voce che rese canzoni come I Will Survive e Never Can Say Goodbye gli inni di una rivoluzione musicale votata al divertimento. A Jersey City Robert “Kool” Bell, nato come musicista jazz, mise insieme con il fratello Ronald negli anni ’60 i Kool & the Gang, destinati a sfornare hit fino agli anni ’80 da Jungle Boogie a Celebration, da Ladies Night a Get down on It.

PATTI SMITH

«Sarò qualcuno, salirò sul treno andrò a New York City. Sarò cattiva, sarò una grande star e non tornerò più, non tornerò più neppure per bruciare questa fabbrica di piscio». Se nessuno è profeta in patria, ci sono anche patrie rinnegate dai profeti. Patti Smith, nata a Chicago, passò nel sud del New Jersey, a Deptford Township parte dell’infanzia e la sua intera adolescenza. In una delle sue prime canzoni, la poesia punk Piss factory (1974), scatenò tutta la sua frustrazione per la vita di provincia. Quegli anni tanto disprezzati hanno fatto di lei chi è poi diventata.

MISFITS

Essendo terra di migranti, molte città del New Jersey portano un nome scelto da comunità di stranieri che volevano onorare le proprie origini. Accade così per la città di Lodi, in ricordo del capoluogo lombardo. È qui che un altro discendente di immigrati italiani Glenn Anzalone, ribattezzatosi Danzig, fondò nel 1977 i Misfits. Da ragazzino Glenn voleva fare il fumettista e portò l’immaginario dei comics in un gruppo che fondeva punk, metal a scenari e look degni di un fumetto horror.

THE FEELIES

Originari di Hoboken come Sinatra, i Feelies sono ormai celebrati tra i padri del moderno indie rock Usa grazie a un disco, Crazy Rhythms (1980) citato come ispirazione da miriadi di band degli anni successivi (dai Rem ai Weezer). Il gruppo, guidato da Glen Mercer non ha fatto molto altro. Ha cessato l’attività nel 1992. Negli anni duemila la nuova scena indie-pop di Brooklyn ha adottato quello storico album come testo di riferimento. A grande richiesta i Feelies sono così tornati sulle scene nel 2008. Da Hoboken provengono anche gli Yo la Tengo, altro nome di culto dell’indie rock Usa.

BON JOVI 

Figlio di un italiano di origini siciliane, Jon Bon Jovi (all’anagrafe John Bongiovi) nei primi anni ’80 trovò un contratto discografico come solista, ma voleva una band. Nel 1984 si mise insieme al suo concittadino di Perth Amboy (località che si affaccia su Staten Island) Ritchie Sambora e, sull’esempio dei Van Halen, chiamò il gruppo con il suo cognome. I Bon Jovi sono stati la band dell’ondata hard rock anni ’80 che non è passata mai di moda. Hanno venduto più di cento milioni di album. Uno dei loro lavori più celebri si intitola New Jersey.

WHITNEY HUSTON

Il suo umiliante declino e la sua tragica fine ha forse fatto un po’ dimenticare il suo immenso talento. Whitney Houston, figlia di un’affermata cantante gospel e corista e cugina di Dionne Warwick, nacque a Newark, per poi trasferirsi, dopo le rivolte razziali scoppiate in città alla fine degli anni ’60, nella più tranquilla New Orange cantando, ancora bambina, nella New Hope Baptist Church. Con la madre iniziò a frequentare e a esibirsi nei locali dell’area, per poi diventare a soli 15 anni corista di Chaka Khan e Lou Rawls. Pochi anni dopo pubblicherà un album di debutto destinato a vendere 25 milioni di copie. La chiesa che l’aveva vista nascere come artista fu anche dove, il 18 febbraio 2012, si è tenuto il suo funerale.

FUGEES

La storia del trio hip hop che ha firmato un classico del genere degli anni ’90, The Score, inizia in una scuola superiore di Maplewood, sobborgo di Newark, dove Lauryn Hill incontra Prakazrel ’Pras’ Michel. Iniziano a esibirsi come duo per poi reclutare un immigrato haitiano, Wyclef Jean, anch’egli residente del New Jersey. «Sono cresciuta in un’area con il 40% di neri e il 60% di ebrei – ha detto Hill diventata poi artista solista – ma l’intera regione è esposta a mille influenze. Una miriade di culture in un posto solo». I pregi dell’integrazione, per chi sa coglierli.