Alias

Brian Auger, mondo Hammond

Brian Auger, mondo HammondLa copertina della raccolta «Back to the Beginning... Again: The Brian Auger Anthology Volume 2»

Intervista/Il tastierista venerato anche dalla subcultura mod «Nel 1964 ho vinto un sondaggio della rivista «Melody Maker» come pianista, è stato allora che ho cominciato a pensare di creare un ponte tra jazz, rock e r’n’b»

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 31 dicembre 2022

Personaggio iconico della scena musicale inglese e poi americana, tra i primi a mischiare jazz, beat, rock e tanto altro, superata da qualche anno l’ottantina, continua imperterrito a suonare, incidere e a conservare una storia più unica che rara. Di cui ascoltiamo qualche lucido ricordo.

Come sei arrivato a suonare l’Hammond, quali sono stati i primi musicisti di riferimento?
Vivevo a Londra, a Shepherd’s Bush. C’era un negozio di dischi, The WG Store che suonava dischi con le casse fuori dal negozio. Un giorno ho sentito un suono meraviglioso. Dopo aver chiesto cosa fosse, mi è stata mostrata una copia di Back at the Chicken Shack di Jimmy Smith. Facendo ricerche su altri organisti jazz americani, ho trovato Jimmy McGriff, Brother Jack McDuff e Richard «Groove» Holmes, che in seguito mi hanno reso il grande onore di registrare tre dei miei brani.

La tua carriera è iniziata durante l’esplosione della scena Mod. Cosa ricordi di quel periodo?
Non ero un mod, ma ho copiato il modo in cui apparivano i musicisti jazz americani, che non era così lontano dai mod. Ma non ci ho mai pensato più di tanto. Londra era piena di musicisti di ogni tipo. Cominciarono a formarsi in gruppi, a seconda del tipo di musica che ascoltavano – pop, r’n’b, blues e jazz -, e con la creazione di molti club, avevamo molti locali che supportavano una grande offerta di musica varia. Ho iniziato a suonare il pianoforte e ho vinto il sondaggio dei lettori di Melody Maker nel 1964, come miglior pianista jazz. È stato allora che ho iniziato a pensare di creare un ponte tra jazz, rock e r’n’b. Avevo molti amici in tutti quegli ambiti.

Sei stato in qualche modo coinvolto in quella che conosciamo come Swinging London.
Sono diventato un musicista professionista nel 1963, ma la mia carriera musicale è iniziata diversi anni prima come semi-professionista. Quel periodo che ha generato i mod ha generato anche la minigonna. Mia moglie, sempre aggiornata, era a Venezia, in Italia, e le è stato negato un posto sul taxi acqueo a causa della sua minigonna. Mi ha anche detto che quando visitava i suoi amici a Roma, diverse giovani bande di «sfigati» quando vedevano qualcuna che indossava una minigonna si sdraiavano sul marciapiede mentre passava. In questo periodo molti stilisti di abiti seguivano la musica per i giovani.

Come mai una band così forte (ascoltando le poche canzoni registrate) come gli Steampacket non è riuscita a esplodere e nemmeno a incidere un disco?
A causa di un eccesso di manager. Baldry ne aveva uno, Rod ne aveva uno e io e Julie ne avevamo uno. I manager hanno discusso per quasi due anni per quale etichetta discografica sarebbero state pubblicate le registrazioni. Sono sopravvissute solo alcune registrazioni pirata e brani della Bbc.

Quando si pensa a Brian Auger è difficile accostarlo a temi «politici». Eppure hai composto e suonato brani con riferimenti abbastanza espliciti (vedi «Czecslovakia») e siete stati con gli Oblivion tra le prime band ad avere bianchi e neri che suonavano insieme.
La mia politica è trattare tutte le persone con gentilezza e rispetto. Sono stato felice di vedere che anche Malcolm X nella sua biografia ha affermato che quando usciva negli anni Trenta nelle grandi sale da ballo di New York, tra i musicisti non c’erano linee di colore. Crescendo ho verificato che i miei eroi erano tutti musicisti neri americani e quando mi sono trasferito negli States mi hanno sempre trattato bene.

Una delle particolarità che ho notato intervistando musicisti dei Sixties e che ho ritrovato in molte delle loro dichiarazioni è che, nonostante centinaia di concerti e dischi in classifica, si ritrovavano sempre senza soldi, a causa di contratti con manager senza scrupoli.
I musicisti a quel tempo erano più interessati alla musica e Londra era una mecca per i manager, che non erano interessati alla musica dei loro artisti, ma ai soldi che guadagnavano. Gli squali erano attratti principalmente da questo e i guadagni venivano semplicemente rubati.

Negli anni Settanta la tastiera diventa uno strumento prevalente nella musica di molti gruppi rock (dagli EL&P ai Deep Purple, ad esempio) ma tu continui a seguire un tuo percorso molto personale. Come mai?
Stavo ancora cercando di andare avanti con il mio mix di jazz e rock. Keith Emerson, un grande tastierista, è diventato un mio caro amico. Quando abbiamo confrontato i musicisti che ci avevano ispirato, si sono rivelati, per la maggior parte, le stesse persone. Keith dal lato classico e io dal lato jazz. Ho iniziato a vedere la musica come la vera lingua internazionale di Madre Terra.

Hai mai rimpianto un’occasione che ti era stata offerta ma a cui hai rinunciato?
No, sono nato musicista, un dono dell’universo! La musica mi ha insegnato tutte le lezioni importanti della mia vita.

Nel 1977 esplode la scena punk. Come l’hai accolta?
Ho comprato un sintetizzatore. Invece delle dozzine di registri d’organo Hammond che usavo, il sintetizzatore offriva nuovi colori. Stava ai musicisti imparare a usare quelli giusti. Vedi Keith Emerson, Stevie Wonder e il mio album Search Party per esempio.

A proposito: i sintetizzatori per i suonatori di Hammond e strumenti analogici sono stati un problema?
No dipende solo da come vengono usati.

Nella tua discografia, a parte varie collaborazioni, si passa da «Here and Now» del 1984 a «Language of the Heart» del 2012 (bellissimo disco, tra l’altro). Come mai così tanto tempo?
In quegli anni jazz è diventata una parolaccia nell’industria discografica, che ora cercava di vendere milioni di dischi, e questo ha chiuso le porte a molta musica, la mia inclusa, ma ho continuato a registrare in qualche modo.

La tua band è diventata una specie di «family affair».
Sì, Karma, mio figlio, è diventato un grande batterista, ingegnere del suono e produttore. Inoltre, le mie figlie Ali e Savannah hanno cantato successivamente per me e hanno fatto un lavoro fantastico. Poi, con Karma alla guida della band, abbiamo mantenuto viva la musica ed è stato un momento molto felice ovunque siamo andati e più il pubblico è diventato più grande, più hanno capito e apprezzato la musica.

Hai incontrato centinaia di artisti famosissimi, chi ricordi con più piacere e affetto?
Troppi, e non posso dire tutti i loro nomi, ma eccone alcuni: Keith Emerson, John Lord, Sarah Vaughn, Julie Driscoll, Mavis Staples, Jimmy Smith e Jack McDuff, Bernard Purdie, Mina, Gianni Morandi, Zucchero, Alex Ligertwood, Ringo Starr, Paul McCartney, Albert Finney, Diana Quick, Car Peterson ecc…

Dall’alto della tua esperienza come vedi il futuro della musica? Dove sta andando secondo te? Cosa dobbiamo aspettarci?
Non lo so. Sono cresciuto ascoltando Marvin Gaye, Stevie Wonder, Donny Hathaway e una miriade di altri artisti. Ascoltando la musica di oggi, verifico che si tratta magari di una traccia ritmica minimale e pochissime canzoni che possono essere cantate da altri artisti. Alcuni artisti megalomani che si sono definiti geni, ovviamente non hanno letto la vita di Mozart, che scriveva canzoni all’età di sei anni. Mandato a Roma a quattordici anni, fu portato a San Pietro per ascoltare il Miserere di Allegri. Venti minuti di musica con un doppio coro. Mozart tornò a casa e scrisse tutto a memoria. A quindici anni ha diretto la sua opera alla Scala di Milano. I frequentatori del concerto lo hanno salutato come «Il Maestrino». Prima di morire senza un soldo e di essere sepolto nella tomba di un povero, scrisse due sinfonie, una al mese. Sono sicuro che non si definiva un genio, ma io sono sicuro che lo fosse! Questo è qualcosa da tenere in mente per tenere sotto controllo tutti i nostri ego.

 

DA «STREETNOISE» A «OPEN»
In un’ipotetica classifica dei migliori tastieristi rock (e affini) di sempre, il nome di Brian Auger non dovrebbe mai mancare ai vertici. È tra i migliori, eppure tra i più sottovalutati e trascurati, nonostante da ormai sessant’anni calchi le scene e abbia suonato a fianco di numi tutelari del rock, artisti come Jimi Hendrix o Rod Stewart, Eric Burdon o in For Your Love degli Yardbirds, oltre a centinaia di altre prestigiose collaborazioni. Da par suo ha firmato album di pura eccellenza con i Trinity, a fianco di Julie Driscoll, con gli Oblivion Express e da solista e continua ad essere un musicista dal gusto sopraffino, con una tecnica invidiabile. La sua costante ricerca per mischiare rock, soul, jazz, rhythm and blues, funk e tanto altro ha dato vita ad album di grande valore artistico, da Streetnoise a Open.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento