«Calvario del vecchio sasso», «Io porto questa pietra da cinquant’anni!»: chi parla così, nel 1868, è Rodolphe Bresdin, l’incisore e disegnatore visionario, maestro di Redon, ancora oggi abbastanza misconosciuto, persino in Francia, se non nel circolo degli studiosi e degli amatori. Eppure in vita godette di una certa fama, quantunque legata, più che ai suoi fogli insieme raffinati e naïf, alla singolarità dell’uomo, che aveva ispirato una celebre novella di Champfleury, Chien-Caillou. Fantaisies d’hiver, dal soprannome (cane-sasso) che si era dato in omaggio omofonico al beneamato letterario Chingachgook, uno dei nobili eroi indiani di James Fenimore Cooper.

La critica si è interrogata sul rapporto – strano, ambiguo – che intercorse fra Bresdin e Champfleury. Nel 1845, prima di diventare il campione della nuova scuola realista, Champfleury – 24 anni, coetaneo di Bresdin, 23, e come lui provinciale, figlio del popolo – mette in scena un povero graveur, Chien-Caillou, che vive in una sudicia mansarda-atelier del quartiere Latino, in compagnia di un coniglio. Appesa, un’acquaforte di Rembrandt, maestro a cui egli si ispira nel mordere i rami, oscure stampe plagiarie che affida a un vecchio ebreo brocanteur perché le smerci come Seicento olandese. Chien-Caillou si innamora della bella Amourette, senza successo: disperazione, uccide l’amico coniglio, cecità, finale in ospedale.

Lo stereotipato romanzetto mescolava astutamente il vero col falso. Lo stesso Champfleury, forse, non immaginava il successo di lettori, che inchiodò Bresdin alla sua effigie letteraria. Partecipe, lateralmente, della bohème parigina riunita intorno a rivistucole come il «Corsaire-Satan» (dove apparve Chien-Caillou), apprezzato da Baudelaire (che curiosamente mai ne scrisse, ma vide «del genio» dietro la «mancanza di talento») e da Théodore de Banville (che invece, in occasione del Salon 1861, avrebbe steso una pagina quasi esaltata), l’artista si stancò presto del suo personaggio, e nel 1849 fuggì da Parigi, se ne andò a vivere in una capanna a Tulle, nella Corrèze.

Nondimeno, lungo gli anni, il personaggio lo seguì come un’ombra, lo appesantì come un sasso, dal che le lamentele, i risentimenti, quasi psicotici, verso Champfleury, il quale a sua volta non riusciva a liberarsi della sua creatura e cercò a più riprese di sdebitarsi con aiuti, fino a concedere a Bresdin, allorché il Figaro decise di riprodurre Chien-Caillou, i diritti d’autore. Materiale per un’altra novella, alla E.T.A. Hoffmann o alla Gautier! quel Gautier che nel 1861 affiliò Bresdin alla «Revue Fantaisiste».

Rodolphe Bresdin, detto Chien-Caillou, “Cavalier oriental”, 1861, acquaforte, Parigi, Bibliothèque nationale de France

1885, la morte a Sèvres
Bresdin morì nel 1885 a Sèvres, ultima tappa fra le innumerevoli che punteggiarono il suo inquieto cercare, proprio lì dove Champfleury ricopriva l’incarico di conservatore del museo della Manifattura. Una testimonianza ‘in ricordo’ dello champfleuriste Alexandre Schanne, che descrive Bresdin «abbastanza maldestro nella sua arte», l’«orologio in ritardo di cinquecento anni», la «coscienza delle proporzioni della figura umana» ferma agli «scalpellini medioevali», dà tutto il senso dell’incomprensione che poteva provocare nel 1886, a livello medio, la pungente stranezza di un’opera nata fuori dell’istituzione, nel segreto di una formazione autodidattica, la ricerca nutritasi di una «cultura… puramente visuale, acquisita – come ha scritto Maxime Préaud, uno dei migliori interpreti di Bresdin – sulle vetrine dei mercanti di stampe».
Nella storia della fortuna critica, spetta a Odilon Redon aver sottratto la figura di Bresdin alla sua dannazione romanzesca. Oggi non è certo lo ‘scherzo’ di Champfleury a introdurre nel segreto del suo mondo, ma la pagina sognante di Redon, osservazioni e ricordi che illuminano tanto il laboratorio grafico, la bizzarria e la sapienza dei procedimenti, quanto la nobiltà personale, il disinteresse e l’umiltà nel vivere dislocato e selvaggio. In un (probabile) ritratto a carboncino lo idealizza sotto specie socratica.
1863, Bordeaux. La congiuntura biografica in cui Redon, 23 anni, si trovò a incrociare Bresdin, 41, deve aver acuito le sue impressioni. Reduce dalla cocente delusione del suo alunnato parigino presso l’accademico Gérôme, che ha cercato di estirpare in lui il desiderio di libera ricerca, Redon è catturato in una mostra da una serie di fogli di Bresdin: vuole conoscere l’artista e comincia a frequentarlo, in quella sua casupola ai margini della città il cui indirizzo, rue Fosse-aux-Lions, questi gli fa «notare scherzando, con un sorriso». Viene iniziato all’acquaforte e alla litografia, riporta su rame alcuni disegni di Bresdin, che poi questi ritocca e firma, come ricorda lo stesso Odilon in una lettera del 1894. La puntigliosità ‘tedesca’ di Bresdin informa mimeticamente le sue prime incisioni.

E così, come scrisse Roseline Bacou nella limpida monografia su Redon, «l’esempio di questo probo artigiano, che è anche uno dei più strani visionari esistiti, gli donerà l’inossidabile certezza della propria vocazione e il coraggio, osando, di esprimerla».
Redon dedicò a Bresdin due ritratti scritti: uno nel 1869, in occasione di una mostra bordolese di Bresdin; l’altro nel 1908, poi trasfuso parzialmente in una conferenza autobiografica tenuta in Olanda nel 1913. Si avverte lo stacco d’epoca: nel 1908 Redon ha compiuto la sua parabola, è stato infine, relativamente, riconosciuto, e proietta retrospettivamente, nella solitudine costituzionale del suo vero maestro, nel suo tormento morale, quelle che erano state le sue inquietudini giovanili, e oltre, alla ricerca del proprio consistere. «Quest’arte è il frutto di una vita precaria, delle delusioni, delle sofferenze di una creatura pura, illusa, spezzata dalle durezze della sorte»; le «minuscole superfici» di Bresdin esprimono «qualche cosa di un’umanità lontana, umile, confusa, attristata».

Le mani aristocratiche
Le mani aristocratiche di Bresdin: «le sue dita affusolate parevano prolungarsi in fluidi che le univano agli… utensili». Redon è stupito dai riti di atelier, innanzitutto dal modo in cui l’artista «stemperava» l’inchiostro, «con calma e gravità», «eliminando tutta la polvere», che gli appariva funesta come a quel «maestro olandese» (intende Gerard Dou) che aveva barricato in cantina olî e colori per preservarli dal pur minimo «atomo nocivo». Questo tipo di preparazione sembrerebbe implicare la perfetta padronanza del procedimento incisorio, quando gli studî scientifici – basati, dal 1976, sulla monografia di Dirk van Gelder, con il catalogo dell’opera incisa – mostrano chiaramente le titubanze e gli errori di una ricerca che sembra dover escogitare in fieri i propri mezzi. Ma se ne derivano non poche imperfezioni, come (a volte) la scarsa qualità di stampe che avrebbero tratto ben altro prestigio da un operare più prescrittivo, il principio di approssimazione, l’inoltrarsi avventuroso, del resto abbastanza tipico degli artisti naïf, hanno nutrito nondimeno l’immaginazione arcigna e lenticolare di Bresdin.

Il corpus dei disegni, più sfuggente, aspetta ancora di essere ordinato: l’ottimo studioso di riferimento è David P. Becker, che in un saggio del 2000 apriva sulla segreta complessità delle tecniche. Bresdin è unico in un genere, penna e inchiostro di china, del quale, nel 1869, egli appariva a Redon «per così dire il creatore». Non si crede ai propri occhi dinanzi a fogli in cui l’ossessione di sottilizzare il segno, e di diradarlo in funzione luministica, realizza un brulichio che può indurre all’equivoco: è un’acquaforte? Quando esiste la derivazione incisoria, risulta spesso indistinguibile dal disegno. La penna e la punta sembrano maneggiate con lo stesso spirito.

Il brulichio implica una particolare acuità visiva, dal groviglio dei segni si affacciano brevi apparizioni, bestiole non catalogabili, piante ‘animate’, o figure macabre di un immaginario gotico del quale Bresdin era intriso, nella familiarità con gli antichi maestri tedeschi.

La foresta: trama fitta, atra, squarciata al centro da una misteriosa cavità di luce; nella piccola acquaforte Branchages, s. d., uno dei capolavori, il tronco stecchito, l’incrocio dei rami contorti anticipano van Gogh; le scene di migrazione, barbariche, orientalistiche: Schamyl e il suo corteo nel disegno del 1859, indefinibile «mélange – come lo vide Théophile Thoré – di alto stile, di forme superbe o graziose, con un’impressione di mascherata» sotto «il cielo troppo a pecorelle»; la radice düreriana: il crepaccio spigoloso, arrovellato, ascensionale, di una stupenda china del 1860, oggi a Chicago.

Nel Salon del 1861 il disegno del Bon Samaritain, subito dopo tradotto in litografia, sancì il successo di Bresdin, che si era già segnalato per le altre due opere maggiori, La Comédie de la Mort (1854) e La Fuite en Ègypte (1855) – Le Papillon et la Mare e La Sainte Famille aux cerfs seguiranno. «È soprattutto la vita formicolante, allucinante, della vegetazione insensata a esercitare la sua azione magica sullo spettatore», ha scritto Marcel Brion nella sua Art fantastique, 1961, a proposito del Samaritano, che, «per la minuzia del lavoro e la precisione dei dettagli», gli ricorda Albrecht Altdorfer.

Il dedalo dei riferimenti tirati in ballo dalla critica, che dai tedeschi del Cinquecento spaziano verso gli olandesi del Seicento (Rembrandt, adorato, ma anche Van Ostade) e, per il presente – secondo il veloce tracciato di Préaud –, Jongkind, Isabey, Hervier, gli olandesi (di nuovo) Mathijs Maris e Wijnand Nuyen, rischia di velare l’aspra originalità di una lezione che brucia sul nascere l’assimilato, fino a integrare senza scarti i frequenti prelievi a ricalco della figura umana, bestia nera per lo sgrammaticato Bresdin.

È stato suggerito che avesse un’idea diminutiva dell’incisione, considerandola, più che un’arte in sé, un mezzo di conservazione e moltiplicazione del disegno. Chiamava le litografie «disegni su pietra», quasi a occultarne la natura seriale. E quando si doveva separare, per vendere, da uno dei suoi rari e diletti fogli, ‘scritti’ a penna d’acciaio con la pazienza del folle, per custodirne traccia ne deduceva una copia rapida, a grandi linee, che appariva a Redon «ammirevole, amplificata nell’invenzione». Repliche che finivano nel vasto assortimento dei disegni ‘da lavoro’, ben più copiosi di quelli finiti.

Nadar, “Champfleury” (Jules Fleury, detto), 1865

Van Gelder, l’opera incisa
Eppure oggi la posizione di Bresdin è stabilita, più che dalla ricchezza dei disegni, dal corpus incisorio. Ne testimonia quel romanzo nel romanzo che è la grande opera del suo esegeta più devoto, l’olandese Van Gelder.
Ma perché non scrisse mai di Bresdin Henri Focillon, «proveniente dalle regioni misteriose della stampa», figlio dell’acquafortista Victor, e così addentro ai problemi dell’incisione francese dell’Ottocento, così attratto dalla «famiglia» dei visionari come Charles Meryon, terribile geometrico sotto «il sole dei morti», piranesiano, al nostro artista opposto e complementare, quasi a formare un ideale dittico?

Lo vide Redon, il grande formato delle opere più importanti meno si addice alle fantasie minuziose di Bresdin, dove la realtà non è mai di colpo, d’impressione, ma ruminata nelle componenti minime, come per l’altro maestro di Odilon, il botanico Armand Chavaud, che cercava nella fisiologia dei vegetali l’infinitamente piccolo. Penetrare troppo con l’occhio conduce a un mondo ultrasensibile dove… compaiono i mostri! Eppure dinanzi ai ’mostri’ del discepolo, ai suoi carboni metafisici, Bresdin, animo semplice, sarebbe rimasto sconcertato.

Odilon Redon, “La Vieillesse”, 1865, carboncino, probabile ritratto di Bresdin, Parigi, musée d’Orsay

La mostra della BnF
«Guarda quel camino, che cosa ti dice?»: se aveva suggerito a Redon di cercare «la leggenda» sotto un «semplice angolo di muro», essa doveva mantenersi entro una precisa soglia del visibile. Interni di cuccagna, strane città, case di sogno, la foresta vergine sul portone di casa, battaglie, con le loro armate d’ombra, secondo le ‘voci’ della mostra del 2000 alla BnF: tutto è all’insegna dell’evasione romantica, un mondo parallelo, di qua restano la povertà e le incombenze materiali della vita senza fissa dimora – Parigi, la Corrèze, Tolosa, di nuovo Parigi, la Gironda, Bordeaux, ancora Parigi… siamo nel 1869, in una stanza del quartiere Latino, dove sei esseri umani si ammucchiano, dice un documento, «come sardine», perché ormai Bresdin, unitosi nel 1858 con Rose Cécile Maleterre, è carico di figli, quattro, e altri due ne verranno… La primogenita Rodolphine sarà interrogata in vecchiaia da Marius e Ary Leblond: resta un dattiloscritto, redatto a partire dal 1927, fonte primaria.

Il sogno di Bresdin era sempre stato, più che il successo artistico, l’agricoltura, «essere un colono, insediarsi in campagna, in un paese dove la terra non costi niente…» (l’amico Paul Arène). Rispondeva a una fissazione autarchica: aveva scavato, sulla premessa dell’accesa fede repubblicana (partecipò, sembra, al ’48; fu, sembra, comunardo), l’utopia di Defoe e ancor più del Robinson suisse di Johan David Wyss, 1812, da cui decalcò un buon numero di immagini incise. «Con la speranza, forse, che un naufragio provvidenziale lo gettasse su un’isola deserta» (Préaud), nel 1873 realizzò l’agognato viaggio oltre Oceano: si imbarcò, con la numerosa famiglia, per il Canada, dove andò male. Nel 1877 torna, più povero di prima. Qui incuriosisce una notizia: progetta con Redon, senza esito, un commercio di vino bordolese.

Una vecchia marmotta
Eccolo di nuovo a Parigi, fino al 1881, quando, separatosi dai suoi, si sposta a Sèvres, dov’è di stanza Champfleury, la dannazione. Muore quattro anni dopo, come lo vediamo in una struggente acquaforte di Paul Guignebault, tratta da uno schizzo, perduto, di Henri Boutet, l’artista che aveva trovato il corpo nella sordida soffitta-atelier di rue Troyon. «Una vecchia marmotta barbuta e calva», ‘scherza’ Robert de Montesquiou, un altro tra i folgorati da Bresdin, l’«inextricable graveur», che è il titolo dell’essai relativo, 1904. E aggiunge che evidentemente Champfleury aveva «ben potuto sostenere la vista di una tale immagine della sua vittima», se il disegno di Boutet era appartenuto alla sua collezione, poi dispersa da Drouot nel 1891: «Era convinto di aver fatto la (sua) celebrità…». L’incisione di Guignebault fu pubblicata nella nuova edizione 1903 dello Chien-Caillou di Champfleury. Così Bresdin veniva fissato nel «vecchio sasso», un peso da cui solo la cura amorevole di alcuni scelti conoscitori dei tempi a venire, facendo leva su Redon, hanno potuto sollevarlo.