Sono passati più di cinquant’anni dal giorno in cui le opere di Constantin Brâncusi tornarono nel suo paese natale (lui, nel frattempo, era morto a Parigi il 16 marzo del 1957) con una grande mostra a Bucarest. Ora l’occasione di un regale «rientro» è data dagli eventi che costellano le celebrazioni di Timisoara, eletta insieme alla greca Eleusi e all’ungherese Veszprém, capitale europea della cultura 2023. Così, fino al prossimo 28 gennaio, presso il Museo nazionale d’arte della città rumena (un elegante palazzo barocco), cento opere provenienti dalle più importanti collezioni del mondo con sculture, disegni, fotografie e filmati racconteranno la magica storia di Brâncusi, in una retrospettiva curata da Doina Lemny, tra le maggiori studiose dell’artista. La rassegna è il frutto della collaborazione di Fondazione Art Encounters e l’Istituto francese, finanziata da Banca Transilvania e dal Consiglio della Contea di Timis.

Il titolo dell’esposizione è già una potente dichiarazione di intenti: Brâncusi: fonti rumene e prospettive universali. «Aveva origini modeste, veniva da una famiglia di contadini dell’Oltenia, nel sud dei Carpazi. Era immerso nella cultura popolare con le sue mitologie e tradizioni – spiega la curatrice Doina Lemny –. Fin dall’infanzia, i suoi genitori lo mandavano a badare alle pecore, un’attività che gli ha permesso di abbandonarsi alla libertà del sogno, di fraternizzare con la natura e di coglierne le meraviglie scolpendo piccole sculture che lo aiutarono ad avere fiducia in sé stesso. Lui sognava di andare più lontano, di sperimentare altri luoghi: dopo essere scappato più volte, arrivò a Târgu Jiu, il capoluogo di contea e poi a Craïova, il capoluogo della sua regione natale, dove lavorò e fu aiutato a ottenere una borsa di studio per entrare nella Scuola di arti e mestieri. È stata la base per un artista che non ha mai smesso di evolversi, conservando l’eredità familiare mentre accoglieva nuove idee».

Quale contributo dà la mostra, nel suo insieme, agli studi su Constantin Brâncusi?
Con questa retrospettiva ho voluto suggerire il forte legame dell’artista, che ha svecchiato la scultura, con il suo paese natale. Un collegamento che è molto sottile perché Brâncusi non ha trasferito direttamente i motivi dell’arte popolare rumena nella sua produzione. Ha saputo, con una profonda riflessione, introdurli con discrezione in alcune opere: è qualcosa che possiamo notare solo dopo un attento studio. Ad esempio, il motivo della Maïastra, prima versione di una lunga serie di Uccelli, è un’allusione alle fiabe popolari che hanno cullato la sua infanzia e quella di tutti i bambini rumeni. Ma il motivo dell’«Uccello miracoloso» che attraverso il suo canto acquisisce poteri soprannaturali e si trasforma in principessa, appare anche in altri racconti di paesi europei e nella letteratura scritta, come quella dei fratelli Grimm. Rumeno in questo caso è il titolo Maïastra che ognuno riconosce. Anche nella Colonna Infinita i rumeni riescono a cogliere elementi della loro architettura popolare. Brâncusi, che fin dal suo arrivo a Parigi, nel 1904, s’interessò ad altri soggetti, praticava la scultura come aveva imparato alla Scuola nazionale di belle arti di Bucarest, ma non intendeva ripetere solo quei motivi artistici. Successivamente, riprese a lavorare il legno, scolpì basamenti e oggetti d’arredo. Allora, La colonna infinita prese a crescere divenendo sempre più alta, fino a trasformarsi in un’opera a sé stante.
Le sculture nate a Parigi venivano acquistate dai suoi connazionali che seguivano con orgoglio la sua evoluzione. Fu notato da Auguste Rodin, maestro indiscusso di inizio XX secolo e cominciò a ricevere dalla Romania committenze per monumenti (alcuni dei quali non saranno mai realizzati). Tali lavori sono conservati nelle collezioni di due musei rumeni: il Museo nazionale d’arte a Bucarest e quello di Craiova. Queste connessioni ed eredità non hanno mai costituito il perno di una retrospettiva, benché si tratti di una parte molto importante nella produzione e nella vita stessa di Brâncusi: lui non interruppe mai i rapporti con il suo paese d’origine, nonostante le vicende politiche e la dittatura comunista. Anche durante il regime, rappresentò sempre un simbolo della creatività rumena.

C’è pure un fotografo e «regista» Brâncusi, meno conosciuto dello scultore…
L’artista è sempre stato molto curioso, attento alle innovazioni del suo tempo. Era affascinato dagli scatti che il fotografo americano Edward Steichen, che in seguito divenne uno dei suoi più cari amici, fece una notte al Bourgeois de Calais di Rodin, a Meudon e voleva continuare a conoscere i segreti di quest’arte. Chiese a Man Ray di comprargli una macchina fotografica e l’attrezzatura per sviluppare le fotografie. Una volta padroneggiata la tecnica, decise di fotografare le proprie opere e di realizzare autoritratti. Non permise più a nessuno di immortalare le sue sculture. Lavorò sugli scatti, utilizzandoli come «spiegazioni» delle opere, imponendo il proprio punto di vista. Poi, sempre su consiglio di Man Ray, acquistò una macchina per sorprendere il movimento: filmò i ballerini nell’atelier in mezzo alle sculture e i paesaggi, soprattutto quelli dei suoi viaggi in Romania.

Qual è l’opera che segna la definitiva separazione di Brâncusi da Rodin?
È sicuramente Il bacio del 1907. Tra gennaio e aprile di quell’anno, lavorò come apprendista nella bottega del maestro, ma molto presto si rese conto che non poteva continuare a copiare modelli imposti. Decise di lasciare lo studio di Rodin per ritrovare la libertà di creare e la propria strada. Più tardi dirà: «All’ombra dei grandi alberi non cresce nulla». Così, approdò a un metodo ancestrale di intaglio diretto che gli permise di prendersi il tempo necessario per riflettere, dialogare con la materia e captarne le suggestioni. Il suo Bacio è esattamente all’opposto di quello che Rodin scolpì nel 1898: due amanti che si abbracciano armoniosamente. Brâncusi, invece, partì da un blocco di pietra e tratteggiò due persone, appena differenti, che nel loro abbraccio si fondono e formano un unico essere. Svilupperà questo motivo per quarant’anni, immaginandolo come elemento architettonico per Il Tempio dell’amore a Indore, in India (progetto mai realizzato) o nel Cancello del bacio, a Târgu Jiu. Lo userà anche sotto forma di fregi o vignette nella sua corrispondenza con i suoi cari. La serie si concluderà nel 1945 con una scultura eccezionale, Borne-frontière, totem composto da tre grandi blocchi di pietra decorati con il motivo del Bacio: un’opera simbolo per la storia dell’Europa e dei suoi popoli, dopo la guerra. Brâncusi fu molto colpito dalla perdita di alcuni territori del suo paese e quella scultura-architettura espresse il suo desiderio di fraternità, unione e pace.

Come si inserisce l’arte dello scultore nel «primitivismo» delle avanguardie?
In quello stesso anno, 1907, Brâncusi scolpì nella pietra una donna seduta, con le ginocchia vicine al petto: viso appiattito e inespressivo è in una posizione di isolamento. Il titolo rumeno è Cumintenia pamântului, espressione intraducibile che tuttavia divenne La Saggezza della Terra. Quest’opera stupì cronisti e critici d’arte per il suo aspetto primitivo. Qualcuno si chiese se non fosse arrivata dagli scavi archeologici dell’antico Egitto. Semplificando all’estremo questa figura, Brâncusi alludeva alla scultura primitiva, alle arti primigenie e annunciava la modernità del suo stile, escludendo i dettagli a favore dell’essenza.

«L’architettura è scultura abitata», diceva l’artista. Può spiegarci in che senso?
Non era l’unico con il desiderio di cimentarsi con una scultura monumentale all’aperto. Quando si recò per la prima volta a New York, nel 1926, per la sua mostra alla Brummer Gallery, fu sedotto dai grattacieli. L’architettura urbana americana lo ossessionò al punto da immaginare una Colonna infinita a New York e a Bucarest. Alla fine della sua vita, il progetto di costruire una «architettura abitabile» a Chicago sulle rive del lago Michigan stava per concretizzarsi, ma si ammalò e non poté più viaggiare. Voleva anche innalzare una Colonna Infinita a Parigi, vicino al palazzo dell’Unesco, ma rimase solo un sogno.

Come si può definire la sua visione cosmogonica?
Pur se abituato a ricevere molti amici artisti nel suo studio, Brâncusi non lavorava in presenza di altri. Per lui era un’azione intima, meditativa. Attratto dal buddismo – menzionava spesso Milarepa, il monaco tibetano che diventò un modello di vita – cercava di superare i suoi limiti. Il patrimonio rumeno lo aveva incluso nella sua filosofia ma poi ne trascendeva i confini, proiettandosi in un mondo dove tutte le creature, dagli esseri viventi alle piante fino ai fenomeni meteorologici, contribuivano all’ordine e all’armonia della creazione. In una nota, scrisse: «La mia patria, il mio paese, la mia famiglia è la terra che gira, il vento che soffia, le nuvole che passano, l’acqua che sgorga, il fuoco che riscalda. Erba verde – erba secca – fango, neve».