«L’art ne fait que commencer». Con questo aforisma vitale di un’arte sempre da inventare il catalogo introduce alla grande mostra su Constantin Brancusi al Centre Georges Pompidou di Parigi. Una mostra resa possibile per la chiusura del museo nel quadro del progetto di rimodernamento e per la necessità di dislocare le opere insieme all’intero contenuto dell’atelier di impasse Ronsin lasciato da Brancusi in eredità allo stato francese.

Parzialmente ricostruito al Palais de Tokyo per poi essere trasferito sullo spiazzo del Centre Pompidou, viene ricollocato nel 1997 in una costruzione indipendente disegnata dallo stesso Renzo Piano, vincitore con Richard Rogers e altri del concorso del 1971 per un edificio del contemporaneo. Una iconica architettura che avrebbe riqualificato il quartiere e segnato l’avvio di una nuova era nella concezione dei futuri musei, dell’allestimento delle loro collezioni così come delle mostre temporanee. Una flessibilità in diretto raffronto con uno spazio che ormai non richiedeva più inclusioni all’interno di volumi ma invitava a una sfida continua nel rimodellare zone e ambienti plasmandoli secondo necessità fisiche o concettuali in continuo divenire.

Constantin Brancusi, “La Muse endormie”, 1910, Parigi, Pompidou, dono della baronessa Renée Irana Frachon, 1963

Ma torniamo alla mostra, curata da Ariane Coulondre (catalogo Editions du Centre Pompidou), inauguratasi da poche settimane e aperta fino all’1 luglio. Centoventi anni sono trascorsi dal mitico viaggio di un giovane artista rumeno che a piedi attraversava l’Europa alla ricerca di un luogo che rispondesse alla sua ansia di dinamiche vive, di intensa e appassionata esplorazione. Parigi rappresentava la massima espressione di quella effervescenza: è dunque qui che Brancusi si stabilisce nel 1904. Crocevia vitale in piena ebollizione dalla seconda metà dell’Ottocento, il ruolo di capitale della cultura si era rafforzato dopo la mirabolante, innovativa esposizione universale di inizio secolo, e in quel luogo cominciavano ad affluire artisti da tutti i paesi fondando così una delle più interessanti e colte compagini artistiche mai viste. Compagine che si sarebbe moltiplicata nel corso del decennio successivo divenendo palcoscenico nella genesi e nell’accoglienza dei futuri movimenti dell’avanguardia, dei loro fondatori o dei loro adepti.

È quindi in quell’ambiente fervido di idee e scambi che si innesta l’originale figura di questo artista dai modi e dall’aspetto così singolari. Minuto, con una lunga barba, Brancusi sembrava accentuare di proposito alcuni tratti che lo distinguevano dagli altri, quasi a creare una distanza irraggiungibile e sottolineare una diversità arcaica attraverso un’opera dalla sofisticata e complessa semplicità: «Io col mio nuovo vengo da qualcosa che è molto antico».

Un’opera che avrebbe marcato generazioni di artisti. La recente scomparsa di Carl Andre e di Richard Serra riaccende l’attenzione a quella dimensione «minimale» dal limine impercettibile tra essere e non essere, dove l’insidia invade lo spazio dell’apparizione. La scultura ripensata nella sua entità più profonda, nell’estensione più spirituale, più ascetica, intellettiva e morale, nella possibilità di ribaltare masse e volumi, di comprimere e rovesciare al suolo il senso dell’infinito, sempre tuttavia alla ricerca del trascendente, del principio primo dell’universo.

A questo straordinario scultore, alla rivoluzionaria opera di Brancusi, il Centre Pompidou dedica un omaggio di ampie dimensioni, una grande esposizione di circa quattrocento pezzi tra sculture, disegni, fotografie, lettere, filmati e altri documenti d’archivio. Una rara occasione per intrecciare i diversi momenti della sua vita con la testimonianza diretta dei rapporti tra Brancusi e alcuni eletti come Amedeo Modigliani, Fernand Léger, Marcel Duchamp – straordinario lo sdoppiamento di personalità attraverso i nomi che si attribuiscono a vicenda: Morice e Maurice –, James Joyce – o della spirale come simbolo –, o i suoi collezionisti americani o ancora le amicizie che lo riportavano ai tempi della giovinezza in Romania.

Un omaggio reso possibile grazie soprattutto alla quantità di materiali provenienti dal lascito dell’artista, poco visti e di fondamentale importanza per approfondire lo studio della sua opera. Affascinanti, ad esempio, le cartoline raccolte nei viaggi con specie diverse di cactus giganteschi o tipologie varie di architetture e capitelli.

Il percorso è cronologico; attraversa tutto l’arco di una vita dove gli improvvisi confronti con reperti archeologici e opere di altre culture sono esempi troppo sporadici per costituire un’interessante materia di discussione. Dalle sculture nate sull’impronta degli studi accademici tra Cracovia e Bucarest, il passaggio alla fase successiva è segnato dall’incontro con le ricerche di quegli anni a Parigi e dal breve apprendistato presso il grande maestro Auguste Rodin. Ma con rara determinazione Brancusi si distacca da quella imponente personalità nella profonda consapevolezza che «all’ombra dei grandi alberi non cresce niente».

Ovunque nella capitale risuonano nuovi linguaggi ma lo scultore è alla ricerca di qualcosa di diverso, non può sintonizzare le sue note al ritmo degli altri. I temi che lo affascinano già dai primi anni – La preghiera, Il sonno, Il bacio – rimangono la base di una esplorazione che solo la morte fermerà. Elementi sempre più semplificati e puri, come i Ritratti o le teste del bambino addormentato diventano nel tempo forme che alludono a quello a cui si sono ispirate. E più l’immagine si avvicina a una visione primordiale, più l’espressione si cristallizza in una dimensione universale che, nella sua essenzialità geometrica, rende visibili i contorni di un’opera che aspira a tornare allo stato naturale di archetipo. «La naturalità in scultura è nel pensiero allegorico, nel simbolo, nella sacralità e nella ricerca dell’essenziale nascosto nel materiale, e non nella riproduzione fotografica delle apparenze esteriori. Lo scultore – afferma Brancusi – è un pensatore e non un fotografo delle apparenze instabili, multiformi e contraddittorie».

Il primo colpo d’occhio è spettacolare con i tre grandi gessi del Gallo che introducono alla mostra, ma quella luminosità e chiarezza si perde quasi immediatamente superato il corridoio di accesso. Si entra allora in un allestimento buio, estremamente scenografico, dove temi e momenti sono scanditi da pannelli che disegnano gli spazi entro i quali in maniera assai didattica manufatti artigianali del paese di origine sono presentati insieme a quei «mobili» che l’artista intagliava per uso personale – sgabelli, sedie, tavoli –, e con le famose basi ideate come parti costitutive della scultura, non semplici supporti. Uno scenario labirintico e intricato si apre sulla ricostruzione dello studio dell’artista, affascinante officina stipata di utensili di ogni genere, bloccata nel tempo, sistema autonomo indefinito per tramandare la memoria di un lavoro tenace, essenziale, sublime.

All’improvviso nelle sale emergono gruppi di sculture. Riunite per tema, sono disposte su «isole» come elementi di una stessa serie nel progressivo avvicinarsi a una sintesi. Un’interpretazione percepita come il tentativo per accostamenti successivi nella totale negazione della magia della singola apparizione delle sculture di Brancusi. Offuscando così quella straordinaria epifania del visibile che l’artista, nell’intento di penetrare il prodigioso mistero dell’universo, congelava nei suoi scatti fotografici. Ribaltando inoltre la sua poetica e circoscrivendo l’opera a quella dimensione fisica e concreta da cui Brancusi rifuggiva nella meditata, mistica sottrazione del reale.