Cultura

Braccianti, nel dolore della separazione

Braccianti, nel dolore della separazioneKamelia ha lavorato nelle campagne di San Severo, in provincia di Foggia, guadagnando tra i venti e i trenta euro al giorno. «Iniziavo alle cinque di mattina e finivo alle sette di sera. Vivevo in una casa di campagna senza acqua né luce. Mi facevano dormire dove prima tenevano i cavalli. Le mie figlie sono rimaste in Bulgaria, mi mancavano tantissimo» / testo e foto di Stefania Prandi

TEMPI PRESENTI Intervista con Stefania Prandi, autrice di «Le madri lontane» (People). Il reportage narrativo è legato anche a una mostra fotografica che il 6 settembre aprirà a Modena. «L’esportazione di manodopera dalla Romania, così come dalla Bulgaria, credo sia dovuta soprattutto alla disparità economica all’interno dell’Europa. Non per tutte il progetto migratorio funziona come sperato. Se si finisce nella rete di caporali oppure di «padroni» che hanno come obiettivo lo sfruttamento dei corpi delle donne»

Pubblicato circa un mese faEdizione del 28 agosto 2024

Si intitola Le madri lontane ed è il reportage narrativo che Stefania Prandi, giornalista e fotografa, ha pubblicato di recente per People (pp. 136, euro 15) e il cui tema è la condizione delle braccianti, in particolare rumene e bulgare, nei campi italiani. Oltre allo sfruttamento cui sono sottoposte, sono costrette a separarsi dai loro figli e figlie, con tutto ciò che comporta.
«Ho iniziato a raccogliere il materiale nella primavera del 2022 – dice Prandi -. Poi a giugno di quell’anno sono stata in Bulgaria e ad agosto in Romania. La postproduzione del materiale, con la scrittura, è durata diversi mesi, durante i quali dovevo comunque continuare i miei lavori da giornalista e fotografa freelance».

Si è già occupata di bracciantato con un’attenzione precisa alle donne («Oro rosso: Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo», Settenove 2018). Così anche di femminicidi in relazione a chi resta («Le conseguenze», Settenove 2020). Nel suo ultimo «Le madri lontane» indaga ulteriormente la radice delle violenze prodotte dalla separazione.
Da anni seguo con interesse i dibattiti occidentali sulla maternità, il senso di colpa che viene instillato alle donne che fanno figli oppure che preferiscono restarne senza, la fatica della conciliazione concepita quasi sempre al femminile, la missione della cura materna che prevede abnegazione e sacrificio. Mi sembrava che ci fosse un tassello del discorso meno indagato, quello delle maternità delle migranti, alle quali non solo non si richiedono le stesse performance delle madri italiane, ma che non vengono nemmeno considerate davvero madri. Se fossimo capaci di un minimo di empatia e fossimo capaci di osservare, o anche solo intuire, la loro lacerazione emotiva quotidiana, che avviene nel silenzio e nella vergogna di avere abbandonato i propri figli, ci metteremmo a urlare per l’orrore. Nel mio percorso da giornalista e fotografa mi sono occupata e mi occupo di sfruttamento, occultamento e annullamento dei corpi delle donne e questo, delle madri lontane, è semplicemente un altro aspetto. Siccome sono donne parte integrante della nostra società, anche se costrette ai margini, e sono inserite appieno nel sistema di produzione del cibo che mettiamo in tavola, che compriamo nei mercati e nei supermercati, dovremmo interessarci a loro. Le loro vite ci riguardano da vicino non solo quando vengono sfruttate in maniera eclatante. Per il libro, che è legato anche a una mostra fotografica itinerante che il 6 settembre verrà allestita alla Casa delle donne di Modena (nell’ambito di «Scomode. Festival delle Donne contro la Violenza, 6-8 settembre, ndr), avevo pensato a un altro titolo, inizialmente, da una frase che mi aveva detto una bracciante: il cuore che resta. Questa donna mi aveva detto: noi partiamo, ma il nostro cuore resta per sempre lì, dove rimangono i nostri figli.

Secondo Save the Children Romania, nel 2022 cinquecentomila minori avevano almeno un genitore all’estero, oltre 180mila li aveva entrambi espatriati. Nel caso del bracciantato femminile, questa distanza dai figli e dalle figlie è parte delle conseguenze del capolarato?
Il dato che mi è stato fornito dalla ricerca di Save the Children Romania è scioccante. Durante il lavoro sul campo e leggendo altri report mi era chiaro che il fenomeno dell’«abbandono» dei figli da parte delle madri o di entrambi i genitori nei Paesi di origine fosse importante. Quelle stime, però, mi hanno fatto percepire l’ampiezza dello scandalo che si nasconde dietro alle braccia «importate» dall’Europa dell’Est alle aree più ricche, principalmente gli Stati del Mediterraneo, ma non solo. I minori rumeni, bambini e bambine oppure adolescenti chiamati anche «senza madre», erano centocinquantacinquemila nel 2022. Cifre che sembrano restare costanti nel corso del tempo. Credo che l’esportazione di manodopera dalla Romania, così come dalla Bulgaria, sulla quale però non sono riuscita ad ottenere dati omogenei e attendibili, sia dovuta soprattutto alla disparità economica all’interno dell’Europa. A spingere le donne a partire ci sono diversi fattori. Il principale è economico: sacrificano il loro presente per assicurare un futuro alla propria famiglia andando in luoghi dove gli stipendi sono più alti. In alcuni casi lo fanno per questioni di mera sopravvivenza, perché dove vivono non riescono ad avere dei lavori che gli permettano di arrivare a fine mese. In altri casi, invece, vogliono fare un salto di classe, seppur minimo, che permetta ai figli di studiare, magari andare all’università, e comperarsi una casa dove trascorrere la vecchiaia. Un fattore ancora poco indagato dai media occidentali, ma che viene sottolineato dalle giornaliste locali, è legato alla violenza di genere. Spesso queste donne scappano da mariti o compagni violenti e il lavoro all’estero diventa una via di salvezza. Il caporalato si inserisce nel fenomeno della migrazione, dettata da bisogni economici, ma anche da una capacità di scelta, seppur costretta, che dobbiamo riconoscere se non vogliamo perdere di vista la forza di queste persone, se intendiamo capire che sono capaci di “agency”, di autodeterminarsi, nonostante le difficoltà in cui si trovano. Il caporalato diventa il piano di mediazione criminale, si potrebbe dire, tra la spinta a partire e la ricerca concreta di un lavoro e di una sistemazione. La rete del caporalato inizia già nei Paesi di origine, in diversi casi che ho osservato, per poi «esplodere» in quelli di arrivo, come l’Italia.

Cancelli protetti dal filo spinato, impiego nelle ore notturne, punizioni di varia entità, salari infimi. Ciò che ti hanno raccontato le braccianti è una situazione di reiterato oltraggio, cui si aggiunge, in molti casi, la violenza maschile. Del resto come lei stessa scrive, non esiste una mappatura che consenta di conoscere i numeri reali delle violenze sessuali, dei ricatti, degli abusi e degli stupri nei campi italiani.
C’è un’ampia letteratura che ci ha dimostrato, negli anni, come l’Occidente consideri le persone che provengono dal cosiddetto Global South, o comunque dai Paesi più poveri, meno «umane». Si preferisce ignorare le reali condizioni in cui si trovano le migranti oppure le immigrate. Per mappare il lavoro nero, le molestie sessuali, le discriminazioni bisognerebbe essere interessati davvero a queste centinaia di migliaia di persone che sono arrivate nei nostri territori. Inoltre, trovare dati o percentuali omogenee e attendibili, dovrebbe portare le istituzioni a riconoscere che esistono dei problemi e a cercare il modo di risolverli. Nascondere sotto il tappeto dell’indifferenza e del razzismo la realtà è più semplice. Così i Paesi più ricchi possono attingere a una massa di manodopera a basso costo, disposta a quasi tutto pur di guadagnare e inviare le cosiddette rimesse alle proprie famiglie. Il sistema è conveniente per chi è interessato al profitto e alla crescita economica delle proprie aziende e per chi vuole cibo a basso costo.

Le destinazioni per l’occupazione agricola femminile risultano Italia, Austria, Spagna. Tra le intervistate di origine rumena incontrate in Italia, le storie di separazione si intrecciano con le condizioni vessatorie, di salute e di dolore.
L’emigrazione ha un costo alto. Significa lasciarsi alle spalle la vita precedente e ricominciare daccapo, in luoghi di cui spesso non si conoscono le dinamiche, ma nemmeno la lingua. La quotidianità si orienta sulla sopravvivenza legata al lavoro: più si riesce a lavorare, più si guadagna e più soldi si riescono a inviare alla propria famiglia. Il progetto migratorio di queste donne non prevede il prendersi cura di sé e non contempla l’idea di attutire le conseguenze del dolore dello strappo dai figli. Si pensa al presente, spesso ignorando sintomi del disagio psicologico e fisico. A lungo andare questo modo di vivere ha un impatto che si manifesta con malattie scoperte troppo tardi, ad esempio, che se fossero state prese in tempo sarebbero state meno invalidanti oppure non sarebbero diventate mortali.

Quando arriva a Zmeu, nella provincia di Iasi e nel mezzo della Moldavia rumena, la desolazione si intreccia con le storie e le parole che le riservano le intervistate. Tra le conseguenze del bracciantato c’è la cosiddetta «sindrome Italia».
La «sindrome Italia» è la condizione di estremo disagio dovuta all’aver delegato la maternità ad altri. Coniata inizialmente da due psicologi ucraini nel 2005, riguarda anche le braccianti. In generale le donne soffrono di insonnia, disturbi d’ansia e stress da isolamento. A causa dello scarso livello di istruzione, partono prima ancora di apprendere la lingua e, giunte sul posto, faticano a creare dei legami. L’agricoltura è meno traumatica del badantaggio, che può implicare anche quindici o venti anni di assenza. Ogni anno, circa il cinque per cento delle ospiti dell’ospedale psichiatrico di Iași è rappresentato da donne con la «sindrome Italia». Arrivano in ambulanza oppure portate dalle famiglie e vengono ricoverate d’urgenza. Può succedere che qualcuna si presenti spontaneamente, in preda a un forte malessere. La psicologa dell’Ospedale psichiatrico Socola di Iași mi ha raccontato di una famiglia in cui erano partiti prima la madre e poi il padre. Il bambino, rimasto con i nonni, ha iniziato a manifestare segni di malessere. Nello stesso periodo, la madre è entrata in depressione ed è stata ricoverata nella struttura. Crescendo, il figlio ha sviluppato una sindrome maniaco-depressiva. Ora tutti e tre sono in Germania. Il ragazzo non è mai riuscito a completare gli studi universitari ed è stato curato in un ospedale psichiatrico tedesco per gli episodi maniacali. Il distacco dalle madri è nocivo: alcuni bambini si portano dietro i traumi per tutta la vita. Non necessariamente sviluppano o manifestano disturbi psichiatrici, ma l’esperienza li segna per sempre, influenzando i loro rapporti personali.

Anche in Bulgaria, a Gabrovnitsa – vicino Montana, le parabole sono simili, eppure colpiscono le parole di Maria che ha vissuto a San Severo, Foggia, Napoli e Catanzaro per raccogliere pomodori, patate e melanzane. E che oggi, a quasi settant’anni, vive nella miseria e con la schiena spezzata dalla fatica degli anni nei campi e ad assistere anziani.
Non per tutte il progetto migratorio funziona come sperato. Se si finisce nella rete di caporali senza scrupoli oppure di «padroni» che hanno come unico obiettivo lo sfruttamento dei corpi delle donne – l’idea di fondo è che come posseggono la terra, così posseggono, o comunque hanno un diritto, su chi la lavora – può diventare difficile guadagnare abbastanza soldi per mantenere la famiglia e mettersi via i soldi per la vecchiaia. Una parte delle migranti riesce a mettersi in regola e ad avere i contributi pagati, che consentono di ottenere una pensione. C’è molta consapevolezza rispetto a questo che, purtroppo, nonostante gli sforzi di un sindacato sempre più indebolito, non si traduce in potere contrattuale. E quindi si resta alla mercè del caso, che si può tradurre in situazioni di lavoro nero o grigio protratte nel tempo che non restituiscono alcuna garanzia.

 

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