La vicenda umana e letteraria di Joë Bousquet (1897-1950) acquisisce, nell’epoca attuale, una valenza paradigmatica per l’irrimediabile condizione di precarietà che la connota. Ferito gravemente al fronte il 27 maggio 1918, il poeta e scrittore francese resterà paralizzato per il resto dei suoi giorni, tra inenarrabili sofferenze, in parte mitigate dall’uso della morfina, nella sua camera blu di Carcassonne dominata da una perenne penombra, dedicandosi alla stesura di innumerevoli testi che passano dalla poesia all’annotazione di taglio diaristico, dalla riflessione speculativa a una narrazione dagli esiti enigmatici e allucinati. Inchiodato al suo letto, attorniato da numerosi quadri di artisti famosi – Max Ernst, Magritte, Dalí, Bellmer, Tanguy, Klee, Masson, Fautrier, Dubuffet – accoglierà gli amici che vanno a trovarlo, tra cui letterati del calibro di Éluard, Aragon, Valéry, Gide, Benda, Paulhan, Simone Weil. Questo microcosmo claustrofobico diviene per Bousquet il centro dell’universo, l’occasione per fare del suo corpo infermo, «amputato dalla realtà», un veicolo di approfondimento e conoscenza. Paulhan asserirà al riguardo: «Bousquet non avrebbe impiegato molto tempo a comprendere che il suo male era comune». La prosa di Bousquet si sviluppa attraverso sequenze contrassegnate da descrizioni di sogni, speculazioni, reminiscenze, racconti di viaggio, momenti epifanici in cui l’elemento surreale si alterna a divagazioni più lineari o sentenze dal sapore aforistico, con risvolti che non di rado rasentano l’afflato mistico.
Negli ultimi anni abbiamo assistito, anche nel nostro paese, alla riscoperta editoriale di questo autore anomalo, fortemente compromesso con un’autenticità che ha pochi referenti nella cultura europea. Si è distinto in particolare Mimesis pubblicando in rapida sequenza Isel (2021), Tradotto dal silenzio. Prose (sempre ’21) e L’ombra di ciò che unisce. Lettere a René Magritte (’22). Ma lo studioso e traduttore che più si è adoperato per diffondere la sua opera è stato Adriano Marchetti di cui ricordiamo le versioni di Da uno sguardo un altro, contenente anche Farfalla di neve (Panozzo, 1987), Tradotto dal silenzio (Marietti, ’87), la Corrispondenza con Simone Weil (SE, ’94), La conoscenza della sera (Panozzo, ’97) e Il quaderno nero (ES, 2000). Una menzione a parte meritano le recenti curatele approntate con il succitato Tradotto dal silenzio per Mimesis e Poèmes épars/Poesie sparse (Pazzini, 2021).
A corredo di tali lavori esce ora per Moretti & Vitali Lettere a Poisson d’Or (1937-1949) (pp. 176, € 20,00), a cura dello stesso studioso, testo finora mai proposto in italiano. Rispetto alla versione francese, originariamente uscita nel 1967 da Gallimard, la presente edizione consta di alcune lettere inedite, ricevute da Marchetti direttamente da Germaine Helen Mühtelhaler, soprannominata da Bousquet «Poisson d’Or» e paragonata a una «fata bionda dal busto nudo». L’inchiostro si inaridisce soltanto quando Bousquet, qualche mese prima della sua scomparsa, apprende la notizia del matrimonio della donna con Ferdinando Tartaglia, teologo eretico e collaboratore di Aldo Capitini, prete scomunicato specialissimo modo, autore di svariati contributi, tra cui Esercizi di verbo, curato dallo stesso Marchetti per Adelphi nel 2004.
L’incontro fatidico tra i due avvenne l’8 luglio 1937 a Carcassonne, nel salone di Jeanne e James Ducellier, in occasione del ventunesimo compleanno di Germaine. Bousquet, portato in loco a braccia dagli amici, ha quarant’anni e rimane folgorato dall’aspetto di quella ragazza bionda, paragonata fin da subito a un Golden Fish. Nasce così un intenso carteggio, di cui conosciamo solo le lettere di Bousquet che vedranno la luce postume e che costituiscono uno degli approdi più rilevanti della produzione dell’autore che si autodefinisce «un mistico allo stato selvaggio». La figura di Poisson d’Or si aggiunge idealmente a quella di altre donne dai nomi o pseudonimi favolosi, incantate dalla corrispondenza sfavillante di Bousquet: Alice, Suzette, Marcelle, Child-wife, Isel, Iris, Hortie, Houx-Rainette, Blanche-par-amour, Abeille d’hiver.
Ben tradotto da Marchetti e Giulia Longo, il libro ripercorre il legame amoroso sotteso a tale vicenda, con punte di letizia espressiva che ben collimano con quell’«immensa predisposizione alla felicità» di cui parla l’autore in una lettera, salvo poi divaricarsi tra aspetti erotici e platonici. Quest’«uomo trincerato dalla vita che da molti anni abita la sua propria voce» diviene così una sorta di mitico cavaliere che, nella sua perfetta immobilità, si mette alla ricerca del Graal (vedi il riferimento di Simone Weil ad Anfortas). Sembra scaturire da qui un’innegabile propensione all’affabulazione, rinnovantesi senza soluzione di continuità attraverso una serie di riflessioni che investono qualsiasi aspetto dello scibile. Il proposito di manifestare tale trasporto amoroso convive con il tentativo di analizzare la reciproca dimensione sentimentale tramite il cinismo di un entomologo che infilza le ali di un lepidottero al fine di carpirne surrettiziamente le sfumature iridescenti dello sfondo.
Parafrasando uno dei suoi titoli più importanti, il curatore sostiene nell’introduzione che «da quel silenzio Joë Bousquet traduce il dettato della sua erotica» (si pensi, in tal senso, anche all’approfondimento della sfera sessuale, costituito dall’ossessione per la sodomia e le natiche femminili nel suo Cahier noir, laddove perversione e misticismo si confondono lungo un itinerario eccentrico che da Sade approda a Bataille). Assillato da vocaboli che ricorrono insistentemente nella sua opera, Bousquet indugia intorno a metafore correlate a una corporeità che si contrappone alla quête spirituale lungo un itinerario complesso e sfaccettato in cui vengono rivendicate con autorevolezza le vertigini del cuore. Si chiede al riguardo Blanchot: «In un destino folgorato, quale ruolo è chiamato a svolgere un sentimento impossibile?».
In una lettera di fine luglio 1938 l’autore stigmatizza, pur sottolineando l’ammirazione per il sodale Éluard, le differenze, non solo di ordine stilistico, che intercorrono con i surrealisti. Non è un caso che le lettere optino per una misura lunga e articolata tesa a investigare, con rara sapienza espressiva, le varie congiunture esistenziali per le quali «la vita non somiglia affatto alla vita». La prosa di Bousquet si configura con la stessa incandescenza di una blessure, delineandosi sulla pagina con la brutalità visiva delle cicatrici. La lezione di Rimbaud e dei surrealisti che volevano cambiare impunemente la vita a favore di un logos senza alcun presupposto autoreferenziale trova proprio nel modello di quest’uomo scheletrito, crocifisso a letto, incapace di muoversi senza indicibili sofferenze, la condizione ideale per manifestare la propria carica autodistruttiva. La parola di Bousquet incarna lo sguardo meduseo che non riesce a tramutarsi in voce («lo sguardo è l’esilio della voce» dirà in una di queste lettere), rapportandosi alla metafora di una farfalla cristallizzata nella neve.
La figura di Germaine, come quella di un imprendibile Pesce d’Oro, diviene così il pretesto per immergersi in questo mare salvifico di parole che non presuppone alcuna redenzione ma che regala a tratti qualche scintilla di appagamento. È emblematico che Bousquet chiami in causa la grazia che si sprigiona dal francese di Rilke, dall’atteggiamento disinteressato, quasi ascetico, da cui nasceranno i Vergers. Per arricchirsi la parola abbisogna di tale spogliazione, di tale denudamento, venuzza d’oro generata tra rivoli d’orina. È altrettanto significativo che Bousquet dedicasse a Poisson d’Or l’album di riflessioni intitolato Mystique, dove si legge, con accenti degni di santa Teresa: «Accetta il tuo male come la prova capitale della tua capacità d’invenzione».