Bortolotto viandante musicale tra Romantik e moderno
Jørgen Roed, An artist resting by the roadside, 1832, Copenaghen, Statens Museum for Kunst
Alias Domenica

Bortolotto viandante musicale tra Romantik e moderno

Musicologi italiani Una miscellanea di saggi e interventi dovuti a studiosi e amici che esplorano l’opera multiforme e l’inconfondibile stile di Mario Bortolotto, in un volume Quodlibet a cura di Roberto Calabretto
Pubblicato 10 mesi faEdizione del 17 dicembre 2023

Parafrasando uno dei titoli di Mario Bortolotto (a sette anni dalla sua scomparsa nel 2017), il lascito, l’eredità intrattengono rapporti sostanziali con qualcosa che non è esagerato definire un enigma. Tant’è: Bortolotto l’oscuro, l’appellativo di Eraclito, in maniera simile a come egli titola una delle sue ossessioni interpretative, Wagner l’oscuro (Adelphi 2003, cruciale opera di cui si attese l’uscita per moltissimi anni).

Assai più difficile è dare un volto a questo enigma. La sua pagina è irta, devoluta a sottintesi che richiedono un’erudizione sconfinata (non solo in campo musicale), ma, nello stesso tempo, apre barbagli di luce. Tanto per fare un esempio, parlare del suo controverso rapporto con Beethoven, che non gli era particolarmente simpatico, richiederebbe un’interpretazione a sé.

Allo stesso modo, le tante sprezzature non si rintanano mai in uno snobismo sterile. La pagina di Bortolotto risponde sempre a una necessità, e questo lo stacca, come ebbe a scrivere Roberto Calasso, pubblicando, nel 2018, una raccolta postuma dei suoi scritti, in una dimensione di grande saggista tout court e, pur essendosi egli occupato tutta la vita di musica, ha un rapporto con la disciplina che pare quasi incidentale (che è ben diverso da casuale). Intendiamoci, per Bortolotto la musica era la sua stessa «forma di vita», in modo assai simile a come Wittgenstein parla di Lebensform. La divorante passione, tuttavia, trascende le secche dello specialismo. A cagione di ciò Calasso non voleva considerarlo soltanto un musicologo o uno storico della musica. Tuttavia, è difficile sciogliere l’enigma se non facendo riferimento all’intera opera.

Contributo significativo per l’interpretazione di questa figura essenziale, è il volume edito da Quodlibet intitolato Dedica a Mario Bortolotto, a cura di Roberto Calabretto (pp. 206, € 20,00). Contiene una miscellanea di saggi che si devono a studiosi, amici, conoscenti. Dissodare l’opera di Bortolotto appare impresa ardua, come ben sanno coloro che hanno partecipato al convegno da cui si origina il libro. Si va da un emozionante ricordo di Giorgio Pestelli al puntuale saggio sul timbro di Francesco Fontanelli. I saggi presenti nel volume toccano ciascuno aspetti fondamentali, che paiono altrettanti segnavia per il tanto lavoro che aspetta gli studiosi di Bortolotto.

Calabretto analizza il rapporto fra la critica musicale italiana e le avanguardie: l’ampio disegno di Bortolotto rivela ancora una volta una peculiarità e uno straniamento rispetto alla critica musicale coeva. Trattando delle avanguardie musicali, Bortolotto inizia quella parabola circolare verso la genesi della modernità. In tale parallasse, egli riesce nel difficilissimo compito di far sì che la sua visione della nuova musica, in una parola del Moderno (che fa incominciare fra Sette e Ottocento), non blateri nel modernismo. Troviamo anche un saggio di Jacopo Pellegrini, massimo auscultatore di Bortolotto, sui suoi contributi di scrittore per i giornali. Ogni saggio presente, a suo modo, traccia una linea di sviluppo che può condurre, ci si augura, a comprendere aspetti non ancora sufficientemente pensati dell’autore.

Non è possibile formulare in parole semplici quello che è stato il suo portato. Egli ha spaziato in tutto l’universo della musica moderna e contemporanea, assumendo come data simbolica la sua prima opera, l’Introduzione al Lied romantico (Ricordi 1962). Il libro ebbe immediata risonanza, a tutto merito del suo autore che già delineava in quegli anni il tratto fondamentale del suo caratteristico approccio. Ma è proprio questo il punto. Si può racchiudere in pochi concetti l’approccio di Bortolotto? È praticamente impossibile.

I suoi scritti, che anche dal punto di vista quantitativo rappresentano un corpus notevole, possono senz’altro essere ispirati al personaggio del viandante, cui Calasso, suo amico ed editore (coadiuvato da Pellegrini e Roberto Colajanni), titolò una raccolta uscita postuma: Il viandante musicale (Adelphi 2018). D’altronde, il viandante, indiscusso protagonista della Romantik, al Maestro non sarebbe certo suonato incongruo. Così si approssima in Bortolotto il suo segno enigmatico: da un lato la disamina continua, che inizia con Fase seconda, della musica a lui coeva; dall’altro un cammino a ritroso, à rebours, per andare all’origine di quella Romantik da cui, circolarmente, era sempre partito, non solo nell’Introduzione al Lied romantico ma anche, per fare un solo esempio, in un saggio giovanile, celebratissimo, dal titolo Chopin, o del timbro (1960).

Ma Bortolotto aveva in uggia qualsivoglia storicismo. I suoi scritti, in particolare quelli mirabili, potrebbero cominciare dalla fine e concludersi con l’inizio. Il viandante scarta continuamente, recalcitra, sospende ogni direzione in furenti digressioni. È proprio la sterminata erudizione a fornirgli l’alibi per il pellegrinaggio. La sua opera è un palinsesto continuo di cancellazioni e sovrimpressioni. Funge da guida il paradosso: non come impasse della riflessione, né come accidente, ma come linfa della analisi critica. Ecco come – in tal senso – egli sia riuscito a dare alla musica, l’ineffabile, una lingua (cosa forse unica in Italia, fatta eccezione per Quirino Principe). Le sue prodigiose osservazioni, il suo stile (lo stile è la cosa, amava ripetere) fanno di questa figura qualcosa che attraverso la musica riesce a illustrare i confini di una cultura che sarebbe perduta. Tutto ciò contribuisce a creare una immagine da interpretare, approfondire, sminuzzare; un pensiero che non ricorre mai alla teoria, un pensiero tanto più forte quanto non elabora o produce teorie, ma è continuamente in atto, in modo simile al Deleuze che in Immagine-movimento sostiene come non possa esservi alcuna teoria del cinema se non come teoria in atto.

C’è un brano di Robert Musil, ricordato da Bortolotto, che aiuta a capire qualcosa in più: «…dei suonatori, riuniti insieme col presentimento di essere sul punto di suonare un brano meraviglioso, la cui partitura non è stata ancora scoperta» (L’uomo senza qualità).

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