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Bortolotto, un diorama di idiosincrasie e intuizioni

Bortolotto, un diorama di idiosincrasie e intuizioni

Appunti musicali Si apre col ricordo di Petrassi, amico di una vita; chiude Stockhausen, «amore» giovanile. E poi Debussy, Ravel, Poulenc...

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 5 maggio 2013

Uno degli aspetti più inquietanti del linguaggio, anche colloquiale e fatico, non solo letterario critico, è quello di celare un significato diverso, ambiguo dietro un’apparenza comunicativa, un sorriso che copra una smorfia, un grazie che suoni un insulto. Se è vero, come afferma Lévi-Strauss, che la musica, proprio perché linguaggio senza parole, è un meta-linguaggio ideale per carpire o adattare ogni possibile diversità di significazione, quest’ultima raccolta di

Mario Bortolotto, Fogli multicolori (Adelphi «Saggi. Nuova serie», pp. 377, euro  30,00), così aperta alle occasioni e così chiusa in realtà dentro le sue note attrazioni e allergie, rivela qualcosa di più al lettore fedele del musicologo più colto e sornione che abbia oggi l’italia, un abbozzo di teoria della musica se si vuole, che in realtà non lo è, perché diventa subito una critica del costume musicale, incastonato quasi al centro della silloge e differenziato da un titolo in corsivo: De Musica. Ci dice molto, questo aperçu subito richiuso, sulle idiosincrasie lontane del critico intorno a classificazioni facili di generi oggi non più accettabili se non per comodità o superficialità di catalogazione.

Tornerò su questo brano insinuativo, in chiusura, anche perchè si accenna al «concetto» di divertimento e di noia, così dirimente nell’estetica-etica bortolottiana, e vi si trova quell’idea di cultura che il suffisso abusatissimo di meta- oggi sembra incarnare, per quanto il critico lo carichi di ironia: l’età delle certezze è lontana, come quella dei verdetti definitivi; e da questo tutto sommato eravamo partiti.

Converrà, prima di troppo divagare, soffermarsi a esaminare i contenuti, per lo meno alcuni, di quest’ultima raccolta, che si apparenta all’altra più sostanziosa apparsa qualche anno fa, Corrispondenze (ancora Adelphi, 2010), dopo una serie di saggi mirabili più «compatti» che affrontavano ora un tema, come quello del teatro lirico (Consacrazione della casa, Adelphi 1982), ora un periodo, come la Francia tardo-ottocentesca (Dopo la Battaglia, Adelphi, 1992) o la Russia da Glinka a Skrjabin (Est dell’Oriente, Adelphi, 1999), ora un autore come Wagner (Wagner l’oscuro, Adelphi, 2003) oppure come Richard Strauss (La serpe in seno, Adelphi, 2007); temi e autori tutti questi prediletti dal nostro critico e offerti a una lettura tra le più affascinanti e ardue, dove alla sapienza specifica si accompagna sempre una conoscenza letteraria e culturale vastissima, talvolta proposta anche in formula di sprezzante snobismo: come qui, quando invece di citare il Libro dell’ inquietudine e l’amato Pessoa, parla di disassosego e del linceo Lisboeta (pag. 140).

Non a caso, questa scelta di articoli o saggi di varia lunghezza si apre e si chiude su autori di musica contemporanea: con un omaggio e un ricordo dell’amico scomparso, il compositore Goffredo Petrassi, cui nel 1964 era stato dedicato un approfondito saggio apparso ne «I Quaderni della Rassegna Musicale (pp. 11-79)», quasi a colmare un’assenza assai lunga, essendo il maestro morto novantanovenne, nel 2003, ma rifiutando di poi l’ingrata fatica, per «l’inesorabile diversità» e soffermandosi significativamente sui bellisssimi Estri per 15 esecutori, quasi coetanei a quella monografia (del 1967 e non 1987 con evidente errore di stampa); e si chiude, questa raccolta, con la descrizione dell’impervia esecuzione del quartetto Arditti dell’Helicopter-Quartet di Kerlheinz Stockhausen. A quello Stockhausen, ricordo, cui Bortolotto aveva dedicato molte pagine nel suo libro più sperimentale e avanguardistico, Fase seconda, studio rischioso di una musica «fatta a perfetta dissimiglianza di Dio» come recita l’esergo; uscito nel 1969 da Einaudi, a risguardi bianchi, poi riproposto nel 2008, da Adelphi, come historicum exemplum, a significare che quell’epoca-meteora della neue Musik, 1946-’64 oltre Webern, era definitivamente tramontata. Chissà se Bortolotto ancor oggi pensa che Stockhausen, con Kafka, ciò che toccava si sfasciava? Quasi poi passando se non la palla la suggestione all’amico editore Calasso (cfr. K, Adelphi, 2002).

Su Kakfa comunque non ha dubbi, se oggi ribadisce che due sono i boemi grandi del passato, il suddetto scrittore e Mahler, con buona pace di Janácek, cui l’aggettivo grande non si addice nonostante le accorate difese di Milan Kundera. E l’opinione, decisa, apparteneva già, con più ricche modulazioni, al volume del 1982 La consacrazione della casa, nel capitolo «Janácek come cattivo lettore»: di Dostoevskij, per l’appunto, e del suo Da una casa di morti.

Si è già detto che sono articoli scritti per un quotidiano, e così recita il risvolto, dove altro non si specifica accomunando nello sprezzo filologico editore e autore (ma il titolo elegantemente indirizza a Il foglio), anche se in questo caso lo sprezzo è giustificato, perché nessuno di questi quaranta «ritratti» più uno, il citato De Musica, ha niente dell’occasionalità recensoria o celebrativa, poiché tutti si costruiscono intorno a un’intuizione di così penetrante perspicacia e fulminante, che non si recupera mai nella critica musicale, neppure nell’idolatrato Fedele D’amico, bensì in campo letterario: ha infatti la stessa impronta e acutezza che si ritrova in Giorgio Manganelli, del resto amatissimo: quella capacità di sintetizzare in poche frasi, talvolta perfino nel titolo, talaltra in un semplice aggettivo sorprendentemente desueto o trasgressivo, un’interpretazione che coglie in modo direi definitorio l’essenzialità vitale poetica di quel musicista e di quell’opera. E saranno le pagine su Debussy e sul suo pianismo, lontane certamente da quelle mallarmeiane di Jankélévitch, perchè per Bortolotto «il tempo debussiniano» è un tempo «profano dove muore la slavata traccia dell’esistenza»; e le penetranti osservazioni sul Pelléas et Mélisande, che lo studioso curiosamente concordando col Leibowitz definisce come il no man’s Land dell’opera lirica.

E ancora quelle seducenti su Ravel, su cui ritorna più volte, sul bambino dei sortilegi e la sua geniale inattualità, dove, però, i sortilegi siano pensati «in funzione ancillare, rispetto al suo lirismo beffato e inestirpabile». O il davvero incantevole capitolo «Francis à jamais», l’adorato Poulenc e la sua «derisoria capacità di tessere trame melodiche sempre rinnovate e il gusto di costruire musiche profane come nate in un bordello di lusso e quelle sacre in un esclusivo atelier di moda». Ed è facile immaginare quanto il raffronto diverta l’estro dissacratorio del nostro critico.

In realtà, Fogli multicolori ripropone un diorama bortolottiano che il suo lettore di sempre conosce bene, a parte qualche novità come il capitolo dottissimo dedicato all’americano, da noi quasi sconosciuto, Charles Ives; sono gli autori che lo studioso ama da sempre o che da sempre detesta sopratutto perchè l’annoiano, come la più parte del Rossini serio proposto dal ROF (Rossini Opera festival), o l’inerzia drammaturgica di Haendel (in questo d’accordo con Stravinskij), o «l’eterno piagnisteo» di Luigi Dallapiccola, di cui poche cose lo convincono.

In ogni caso, in ogni «foglio», del musicista preso in esame per rapide associazioni, per insoliti illuminanti accostamenti, anche letterari, per bizzarre ma acutissime interferenze, Bortolotto riesce sempre a rilevare quell’aspetto da altri negletto, quella caratteristica insolita che ne rinnova radicalmente la conoscenza, la comprensione. Ci sono, inoltre, articoli più elaborati e importanti, quelli per esempio dedicati al bisbetico grande Schönberg, dove, tra l’altro, quasi venendo dietro a un suggerimento arbasiniano, si affronta il frammento-torso Moses und Aron, oppure rivolti, sia pure per accenni, al vivace dialettico rapporto con Adorno, rispettato anche quando sbaglia, forse per un’indubbia affinità di fine alterigia. Ci sono infine, per concludere e riallacciarmi a quel che dicevo all’inizio, due capitoli sublimi per «ideologia», termine che Bortolotto aborre e che qui significa soltanto libertà di giudizio, di gusto da ogni impedenza classificatoria, classicistica o similia, e sono, per esempio, «Limiti e silenzio», il «De Musica» già citato, oppure «Sitlnuovo viennese». Insomma Bortolotto, tra connessioni metalinguistiche o metamusicali, inclinazioni camp appena occulte e noie bisbetiche, ancora una volta ci diverte e affascina.

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