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Borja-Villel: la critica sociale, un parco a tema

Borja-Villel: la critica sociale, un parco a temaUn’opera dalla mostra di Vivian Suter, 2021-’22, curata da Manuel Borja-Villel, nel Museo Reina Sofía a Madrid

Manuel Borja-Villel, "Campi magnetici. Scritti di arte e politica", ed. hopefulmonster Il direttore del Reina Sofía di Madrid smaschera i dispositivi ideologici dell’«inclusione» nel produrre opere e nei musei

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 17 luglio 2022
Manuel Borja-Villel

L’arte intrattiene da sempre un rapporto ambiguo con il potere e in passato ciò le ha permesso di sfuggire in qualche misura ai tentativi di strumentalizzazione. Ma questa ambivalenza resta sempre reversibile e l’esperienza estetica odierna spesso non è più un’attività liberatoria, un’apertura a nuovi mondi, bensì la ratifica di un ordine costituito. «La pratica artistica è stata assimilata alla cultura del consumo e, a causa della crescente precarizzazione della critica, i parametri di valutazione e distinzione stanno svanendo in modo allarmante. Il risultato è quel “vale tutto” così popolare in alcuni settori dell’arte contemporanea».
Questo almeno sostiene in Campi magnetici Scritti di arte e politica (hopefulmonster, pp. 224, e 24,00) Manuel Borja-Villel (1957), direttore del Museo Reina Sofía di Madrid, già a capo del MACBA e della Fundació Tàpies. L’opera mutua il titolo da un esperimento di scrittura automatica pubblicato nel 1920 da Breton e Soupault, ed è un’antologia di brevi testi prodotti tra 1995 e 2021, qui raggruppati in tre sezioni a comporre un discorso discontinuo e compiaciuto della propria discontinuità. Volendo riflettere uno scenario complesso e in costante divenire, infatti, le analisi di Borja-Villel aggirano accuratamente ogni narrazione lineare ed evolutiva, mettendo in connessione gesti e dispositivi senza mai offrire risposte definitive.
Nelle prime due parti del libro l’autore discute le perversioni di un periodo storico, il secondo Novecento, nel quale l’impegno politico è apparso irrinunciabile ad artisti e intellettuali. Borja-Villel è ammirevole nell’enucleare con gergo erudito i concetti-chiave di una possibile Storia delle Neoavanguardie, che pure non intende scrivere. Del resto, la vera partita si gioca sulla storicizzazione delle tendenze artistiche degli ultimi trent’anni, come dimostra anche il recente riordinamento delle collezioni del Reina Sofía da lui curato.
In polemica con l’estetizzazione del dolore, l’autore biasima quella moltitudine di artisti che fondano il proprio lavoro sullo scandalo o sullo spettacolo della miseria altrui. Per costoro la critica sociale e politica è «un elemento retorico, se non una mera strategia di marketing, che rafforza la natura favolosa dell’artista, l’autonomia dell’opera e la sua conseguente feticizzazione e conversione in merce. Come in una nuova forma di sfruttamento, se possibile ancor più asettica e perversa, le disgrazie degli altri procurano benefici e si prestano a decorare i saloni quanto i luoghi pubblici».
Tuttavia, la sezione più sostanziosa del volume riguarda il museo, inteso quale struttura di riproduzione ideologica: un’istituzione di origine illuminista finalizzata a preservare la memoria storica e promuovere l’educazione universale attraverso la costruzione di una versione mitica ed eterna della storia. Se l’opera d’arte è un «significante enigmatico» la cui ambiguità radicale permette e persino esige la contingenza di esseri, cose e relazioni, allora il museo d’arte non può che rilanciare questa ambiguità. Perciò l’autore ragiona sulla funzione di un dispositivo mnesico che, pur pensandosi neutrale, in realtà serve a selezionare alcuni ricordi e comportamenti a scapito di altri; uno spazio in sé opaco anche quando promette trasparenza, capace di generare disuguaglianze e oppressione.
A metà tra apparato burocratico e macchina da guerra, il museo è stato fino a poco tempo fa «un’eterotropia paradossale: come archivio, la sua missione principale era conservare; come esposizione, il suo scopo era mostrare». Ha mantenuto una vocazione di riforma sociale e al contempo è cresciuto sulla base di saccheggi coloniali. Oggi invece è «una sorta di parco a tema travestito da falsa memoria in cui i rapporti tra gli individui sono basati sul consumo, e il soggetto politico è sostituito dal consumatore». Borja-Villel deplora le politiche culturali che assimilano i musei a ingranaggi dell’industria turistica e impongono loro di massimizzare i ricavi aprendosi al pubblico più vasto e indifferenziato attraverso una pedagogia appiattita sull’intrattenimento. Al contrario, egli incoraggia un’idea di pluralità degli spettatori, che considera agenti attivi in un processo di emancipazione. Nel libro in effetti vengono menzionati vari progetti, mostre e iniziative intraprese dal Reina Sofía verso la definizione di nuove dinamiche di intermediazione. Purtroppo, rileva ancora l’autore, al modello storicista, escludente, se ne è sostituito uno solo apparentemente inclusivo in cui la pratica educativa è offuscata dalla mera differenza formale dei contenuti: «la presentazione della collezione è massiccia e allestita a mo’ di deposito, ma, in sostanza, la sua organizzazione mima quella che possiamo visitare in una fiera. Questa posizione comune è cinica e doppiamente conformista nella misura in cui la sua sottomissione al potere e al mercato si riveste di modernità e rivolta».
Dopo l’esplosione dei movimenti Occupy, il museo democratico deve interpellare l’altro – gli esclusi, gli antagonisti, le minoranze – e non semplicemente per proporre dall’alto codici etici o per trovare formule di più largo accesso, cioè di maggior consumo, bensì per elaborare in maniera condivisa una narrazione altra rispetto a quella prescritta dal potere. «Il museo oscilla tra l’essere una sfera di potere, che condanna alla sottomissione coloro che finge di proteggere, o un territorio d’interpellanza, che concorre allo stabilirsi di modi alternativi di fare e pensare, e infine incentiva le infinite possibilità di immaginare e materializzare la vita».
Sebbene descriva lucidamente il museo come un grande apparato ideologico sempre pronto a favorire l’agenda dei gruppi al potere e in grado di rinnovarsi nel tempo assorbendo attacchi e dissensi (delle avanguardie, dell’institutional critique), Borja-Villel riesce comunque a sostenere con ottimismo la visione di un riscatto finale, di un radioso futuro di libertà. In ciò è coerente con il suo ruolo istituzionale. La storia non può abdicare a se stessa ma solo scoprire nuovi paradigmi; e ogni direttore di museo fa quello che hanno fatto tutti coloro che l’hanno preceduto: d’imperio o per negoziato, riordina l’esposizione aggiornandone i criteri, contribuendo così al ciclo permanente di riscrittura della memoria.
Campi magnetici è uno stimolante esempio di acume interpretativo, perché la forza di Borja-Villel è, per dirla nei suoi termini, nella consapevolezza del grado di complicità che lui stesso ha con ciò che critica.

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