Come vestivano gli zazous? Come impiegava il suo tempo l’esistenzialista? Chi erano i trogloditi, «l’apporto germanopratino più originale all’insieme delle razze francesi»? A questi ed altri non troppo fondamentali interrogativi del secondo dopoguerra risponde il Manuel de Saint-Germain-des-Prés, uno dei libri più intensi di Boris Vian che, a causa di articolate vicissitudini editoriali, uscì postumo soltanto nel 1974 presso le Éditions du Chêne. Si tratta di una guida sui generis, dal tono scanzonato e sarcastico, in cui il «principe di Saint-Germain-des-Prés» ricostruisce l’atmosfera della Parigi dell’epoca, tra balli scatenati al Tabou, «centro di follia organizzata», e inesauribili schermaglie dialettiche ai tavolini dei Deux Magots o del Flore. Si fuma un’infinità di sigarette, si bevono intrugli alcolici devastanti (un cocktail creato dall’autore, paragonabile a una sorta di attentato alla salute pubblica, si chiama Flamant rose, meglio conosciuto con l’ossimorica definizione di «sborra alle fragole»), ascoltando lo swing di Duke Ellington o delle formazioni locali, tra cui quella dello stesso Vian che, nonostante le proibizioni dei medici, si ostina a ricavare dalla sua trompette, dalla sua trompinette, un campionario di vibrati degno del suo eroe Bix Beiderbecke. D’altronde non l’hanno soprannominato «il poeta sincopato»?
Dedito ai bourrimés e al bebop, Vian reinventa, come Paracelso, l’homunculus di un linguaggio artefatto con naturalezza, implicante argot e mots-valises, librato con slancio verso un’esistenza atta a infischiarsene di quella cardiopatia endemica che tenta di esorcizzare attraverso una mole di lavoro dai tratti patologici. Per giustificare tali eccessi generazionali Simone De Beauvoir scriverà: «Dovevamo dimenticare, e dimenticare che dimenticavamo».
Ma chi era quel giovane ingegnere che, con lo pseudonimo di Vernon Sullivan, scrittore di colore, improbabile quanto il protagonista del suo libro, dichiarato nero di pelle albina, aveva scandalizzato i benpensanti pubblicando il romanzo Sputerò sulle vostre tombe, composto nell’arco di quindici giorni per scommessa con il suo editore, spacciandosi per traduttore di un’opera che stigmatizza il razzismo a stelle e strisce? Chi era quell’inesauribile spilungone, bianco di un atipico «pallore da clown», che aveva affascinato figure del calibro di Sartre e dell’inseparabile «castoro», di Queneau e Merleau-Ponty, con cui condivideva gli ambienti asfittici e fumosi delle caves dove si esibiva una giovanissima Juliette Gréco?
A distanza di un secolo dalla nascita provvede a «risponderci» Valèrie-Marie Marchand con il suo Boris Vian La biografia (Giulio Perrone Editore, pp. 376, € 22,00) che appare nell’ottima traduzione di Carlotta Ausilio. In tale lavoro si ripercorrono le vicende esistenziali di questo eccentrico intellettuale a tutto tondo che fu poligrafo e musicista, pittore e inventore di incredibili manufatti alla stregua di Charles Cros, sceneggiatore, traduttore, patafisico (verrà insignito della carica di «macellaio di prima classe», oltre a quella di Satrapo, dal Collège de ’Pataphysique che aveva per emblema la giduglia di Père Ubu). Si passano così in rassegna i principali avvenimenti della vita di questo inetto alla vita: dal fondamentale rapporto con un padre dal temperamento tenero e creativo alla scoperta dell’insufficienza valvolare aortica che segnerà la sua esistenza (Non vorrei crepare si intitola una delle sue poesie più celebri), dalla passione per il jazz che gli farà conoscere e frequentare musicisti del calibro di Duke Ellington, Charlie Parker, Miles Davis, al legame sentimentale con Michelle Léglise, che sposerà e dalla quale avrà due figli, al lavoro presso l’Afnor, in cui trova il tempo per esercitarsi nella scrittura.
E poi via via lo scandalo suscitato da Sputerò sulle vostre tombe (1946) con il relativo processo per pornografia, aggravato dall’episodio del ritrovamento, in un albergo di Montparnasse, del cadavere di una ragazza con accanto una copia del romanzo annotato dall’assassino. Sullivan e il suo traduttore diventano criminali su procura. Ma Vian insiste e pubblica altri tre libri a nome del fantomatico autore americano che, a causa del putiferio suscitato, riscuote un discreto successo commerciale. Vengono così dati alle stampe i romanzi I morti hanno la stessa pelle (’47), E tutti i mostri saranno uccisi (’48) e Perché non sanno quello che fanno (’48), dalle molteplici influenze stilistiche: dall’erotismo di Henry Miller, la cui versione speculare del Tropico, proibita in America e pubblicata in lingua originale a Parigi negli anni trenta, esce in traduzione francese tra il ’45 e il ’46, all’hard boiled di Raymond Chandler, autore tradotto dallo stesso Vian, per arrivare a svariati modelli di taglio fantascientifico (nel libro sui «mostri» sono rintracciabili echi dell’Isola del dottor Moreau di Wells).
Queneau, che non gli lesina la sua costante simpatia, rimane sconcertato dalla deriva creativa del suo protetto, sempre più soggiogato da quel sulfureo Sullivan che si configura come alter ego brutale e dispotico: il contrario della gioiosità, della giocosità un po’ ingenue, cadenzate su uno humour dirompente, che contrassegnano la trama di Vercoquin et le plancton, di cui l’autore di Pierrot mon ami si era fatto mallevadore con Gallimard, facendolo pubblicare nel ’46 senza grandi riscontri. Ma i romanzi più significativi di Vian restano La schiuma dei giorni e L’autunno a Pechino, usciti l’anno successivo rispettivamente per Gallimard e per le Éditions du Scorpion, oltre a Lo strappacuore, licenziato per Vrille nel ’53. Nel primo titolo soprattutto – alcuni frammenti del quale furono anticipati da «Les Temps Modernes» (che ospiterà anche una serie di contributi apparsi postumi in volume con il titolo Chroniques du menteur) –, sembrano conciliarsi istanze variegate: dal nonsense di derivazione jarryana alla programmazione dell’assurdo, dalla visionarietà surreale alla verve combinatoria dell’amico Queneau o di certi lettristi. Si rivisita il fenomeno dell’esistenzialismo attraverso l’ardore collezionistico di Chick, infatuato dell’opera del filosofo Jean-Sol Partre, autore di Le vomit, a cui però manca il livore contenuto nel poco più tardo Tartre di Céline.
Ma è il personaggio di Chloé, irrimediabilmente condannata da una ninfea che le ostruisce un polmone, ad adombrare la precarietà con la quale il narratore percepisce il proprio status crudele, consapevole che «C’è sangue su tutto il corpo / E poiché non ci piace vederlo / Si preferisce far scorrere quello degli altri», come recitano alcuni versi tratti dalle sue Cantilènes en gelée.
Giustamente la biografa osserva che «Boris Vian prende atto di un doppio paradosso. Più ci si riferisce al reale più si delinea la finzione. E più si liberano le parole dal loro registro abituale, più si riconciliano con il loro significato originario». Negli ultimi capitoli si descrive il patetico avvitamento di un Orfeo sbalestrato nel mondo degli inferi: la sofferta separazione da Michelle e dai figli, la nuova liaison con la ballerina svizzera Ursula Kübler, il trasferimento nella Cité Véron, la passione smodata per le automobili (mitica la Brasier 1911, accessoriata con relativo pitale per i bisogni fisiologici), gli attestati di stima di Mac Orlan, Prévert, Robbe-Grillet, la carriera di cantante istigata dal discografico Jacques Canetti, fratello di Elias, lo scandalo provocato da Le déserteur, che diverrà un caposaldo del pacifismo sessantottesco, oltre che ineguagliabile modello per Gainsbourg, Moustaki, Brassens. A seguire, uno stillicidio di motivi celebri come Je bois, J’suis snob, Complainte du progrès. Il mondo della canzone, collaudato attraverso l’esperienza manageriale e la proficua collaborazione con vari artisti, tra cui Henri Salvador, si rivela quanto mai effimero e viene investigato capillarmente in En avant la zizique… et par ici les gros sous, edito nel 1958. Questi testi idealmente si riallacciano agli articoli scritti per la rivista «Jazz-Hot» e «Combat», confluiti nel volume Chroniques de Jazz (’67). Il cuore infine non regge all’anteprima della pessima riduzione cinematografica di Sputerò sulle vostre tombe. È il 23 giugno 1959, Vian ha appena trentanove anni. Non sopportava la mediocrità, il pressappochismo. Gliel’hanno proprio strappato senza pietà, quel cuore così grande, brulicante di innumerevoli formiche.