Alias

Boris Nikitin, tra palco e biografia

Boris Nikitin, tra palco e biografia«Hamlet» di Boris Nikitin (Ph. Donata Ettlin)

Intervista Il regista teatrale e la costruzione delle identità alla Biennale Teatro

Pubblicato più di un anno faEdizione del 10 giugno 2023

Lavoro spesso con identità reali e con attori non professionisti per portare i vissuti sul palco. C’è chiaramente un conflitto in questa aspirazione, ma è lo stesso che può esserci su una pagina di giornale: non è il luogo della realtà, è un pezzo di carta, un mezzo, che però riporta una rappresentazione del reale» spiega Boris Nikitin quando lo incontriamo su Zoom. Il regista, autore e interprete svizzero classe 1979 indaga da molti anni la costruzione delle identità tramite una critica proficua al «genere» da lui stesso praticato, il teatro documentario. Sarà uno degli ospiti internazionali della 51a Biennale Teatro con due spettacoli, il «solo» Sul morire, in programma il 25 giugno, dispositivo in cui l’autore tematizza la morte del padre e la rottura della barriera del silenzio tramite la pura enunciazione, e Hamlet, una riscrittura energica e provocatoria dove Amleto è «maschera» e prosecuzione del personaggio autobiografico del performer Julian Meding.

Qual è la sua definizione di teatro documentario?
La mia ricerca è più vicina a una critica delle pratiche documentaristiche, e questo riguarda la mia definizione di teatro documentario che è prima di tutto teatro anche se basato su una raccolta di ricerche e documenti non immaginari. Si può dire che un palcoscenico è come un display su cui mettere del materiale non di fantasia. Ma come per il giornale, quello che viene comunicato viene inquadrato in un determinato modo, è una rappresentazione della realtà. È il motivo per cui ho sempre sostenuto che il documentario, e intendo qui anche il cinema, e la propaganda sono molto vicini nella loro natura, e possono persino coincidere. In entrambi i casi ciò che viene presentato crea un effetto di autenticità, ma tutto ciò che afferma di non essere finzione ha un potenziale manipolativo che la fiction non ha per statuto.

Sostiene quindi che l’approccio documentaristico ha un effetto potente ma non sempre cristallino?
Direi che i buoni lavori documentari hanno questo potere. Per quanto riguarda il teatro, negli ultimi quindici anni queste pratiche hanno creato un’emancipazione rispetto a un’idea tradizionale di autorialità e attorialità, tematizzandola però in maniera implicita. Penso ai lavori basati su interviste: potrebbe sembrare che viene meno la paternità della scrittura e della regia, ma anche qui c’è un potenziale manipolativo, visto che c’è sempre una direzione esterna che fa le domande, e sceglie i soggetti. Questo mi ha sempre reso sospettoso verso il genere, in particolare quando ci sono non professionisti che parlano di sé sul palco bisogna sempre tenere a mente che non si parla realmente di loro; sono dei “prodotti” degli artisti, anche se sono lì e si presentano col loro nome. Diviene qui centrale il tema della costruzione dell’identità, che mi ha molto interessato nell’ultimo decennio.

Una questione che esplora nello spettacolo «Hamlet».
Sì, in questo caso ho unito materiale di finzione e non, non è chiaro se il personaggio sul palco sia se stesso o stia interpretando. Gli elementi biografici e la maschera di Amleto si fondono in una costante transizione, come penso sia in generale l’identità: relazionale e prodotta nel tempo. E tornano gli interrogativi dell’Amleto, dove tutto riguarda ciò che è reale e ciò che non lo è. Lo spettacolo è molto legato all’interprete, Julian Meding, alla sua vita e a ciò che il pubblico vede in lui. Dopo poco tempo arrivano le prime idee, i primi pregiudizi, ma nel corso dei 90 minuti tutto questo cambia, si fa esperienza in maniera forte di una costruzione legata alla temporalità che ci costituisce. Mi affascina il potenziale di trasformazione che dovrebbe portare all’imprevedibilità, mentre molto teatro documentario tende purtroppo a essere prevedibile.

Entra qui in gioco la questione di genere che affronta in alcuni spettacoli?
In realtà no. Mi ha sempre interessato la French Theory, da cui poi la questione di genere si è sviluppata, e sicuramente è molto connessa all’identità come costruzione. Sono elementi alla base del mio pensiero ma non voglio affrontarlo come un «tema». Julian in questi ultimi anni ha iniziato a definirsi non binario, non era così quando abbiamo iniziato a proporre la performance. Il fatto è che a me interessa offuscare i confini, confondere le definizioni. L’attivismo nei confronti della diversità, del genere, le teorie postcoloniali e così via, hanno avuto una grande crescita dopo l’elezione di Trump. Mi chiedo quindi, come funziona ora lo spettacolo rispetto a quando lo abbiamo ideato sette anni fa? Credo bene proprio perché non sono questi gli elementi centrali, è un lavoro innanzitutto poetico.

In «Sul morire» c’è solo lei sul palco che legge un testo legato alla morte di suo padre.
Sì, c’è una grande libertà nella riduzione. Il concetto è semplicissimo ma sul testo ho lavorato molto. A volte evito il contatto di sguardi con lo spettatore per lasciare che riempia quello spazio, quei silenzi con i suoi pensieri e i suoi ricordi. Nonostante sia basato sulla mia biografia tocca argomenti universali per cui si costruisce un senso di comunità. La presenza del testo che sfoglio man mano crea un ritmo, uno sviluppo nel tempo. Il senso dello spettacolo è rompere il silenzio su alcuni argomenti, per questo volevo si che trattasse solo di parole e della mia voce.

Fino a pochi anni fa dirigeva un festival di teatro documentario, It’s the Real Thing, che tipo di esperienza è stata?
Ho iniziato nel 2013, volevo creare una piattaforma per il teatro documentario ma con l’approccio critico di cui dicevo prima. In quegli anni il genere era al suo culmine, mi interessava mettere in discussione noi stessi. Ho abbandonato il progetto nel 2019, dopo Trump era più forte il rischio di fare attivismo col teatro documentario, e questo a me non convince. Bisogna prendersi le responsabilità di dirigere o di salire sul palco, rendendosi vulnerabili. Intervistare un senzatetto è oggettivamente corretto, e anche se fatto male, si pensa di avere già una rilevanza mentre temo che a volte ci sia una forma di pigrizia. È giusto dare voce a chi non ne ha ma coma pratica artistica comporta molti rischi: il modo in cui queste persone vengono imbalsamate nella loro condizione di rifugiati ad esempio, mentre sono individui con vissuti molto più complessi. Noi li vediamo così, perché è ciò che è rilevante per noi. Spesso le intenzioni sono buone però non scordiamoci che siamo artisti, che cerchiamo ognuno a suo modo visibilità. La politica è fondamentale nella società, ma non sono molti gli artisti che hanno davvero voglia di fare campagne al di là della professione. Si rischia di «corrompere» questioni importanti se si mescolano aspirazione al successo e istanze sociali. La rilevanza politica del teatro sta nel suo essere uno spazio di contraddizione o di auto-contraddizione, un luogo di libertà nel quale si possono commettere errori e dire cose che nella vita quotidiana sarebbero problematiche.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento