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Boris Lojkine, il cinema comincia nei vissuti

Boris Lojkine, il cinema comincia nei vissutiAbou Sangare in La storia di Souleymane

Intervista «La storia di Souleymane», premiato a Cannes, uscirà il 10 ottobre. Conversazione col regista. Un rider sans papier nelle strade di Parigi, l’attore che lo interpreta a rischio di espulsione, le mille identità

Pubblicato 8 giorni faEdizione del 3 ottobre 2024

Souleymane è un rider, è arrivato in Francia dalla Guinea, la macchina da presa lo sgue mentre corre nelle strade di Parigi sulla sua bici per consegnare gli ordini ai clienti. Lavora con l’identità di un altro col quale deve litigare per avere i suoi soldi. Di lui all’inizio sappiamo poco, solo che ha due giorni per passare il colloquio e ottenere l’asilo politico, qualcuno gli ha scritto una stori su misura che però non è la sua, che lui fatica a ripetere, perché non ha fatto politica ma se ne è andato dalla miseria, dalla violenza, per amore della madre malata, per aiutarla. Questo però i burocrati francesi non lo accetteranno. La storia di Souleymane – che sarà in sala il 10 ottobre – è firmato da Boris Lojkine, regista e produttore, insieme a Daniele Incalcaterra ha prodotto la nuova generazione di cinema in Centrafrica. Anche Abou Sangare, il protagonista del film, presentato a Cannes, nel Certain regard, come il pesonaggio è un ragazzo della Guinea di ventitre anni, in Francia da sei, che ha vinto il premio per la migliore interpretazione e oggi rischia di essere espulso. «Siamo sempre in attesa, è una situazione orribile» dice Boris Lojkine. Ci incontriamo a Roma.

«La storia di Souleymane» è quella di tantissimi migranti nell’Europa di oggi. Come ti sei posto rispetto a questo, a una realtà cioè che è al tempo stesso narrazione? Il rider è divenuto nelle storie un riferimento per confrontarsi col vissuto dei migranti.

Mi sono documentato a lungo, il film pure se di finzione ha molti aspetti documentari proprio perché lavora su una figura sociologica. Souleymane è prima di tutto un rider, poi viene chi è, cosa fa, la sua storia. In strada ho incontrato i rider, ho fatto lunghe interviste con loro, mi hanno dato aneddoti, dettagli. Questi ultimi sono preziosi perché portano nel racconto una materia reale, dicono della loro vita, del lavoro, di come funziona il sistema di subappalto dell’account. Spiegano come procurarsi la bici, quanto sono pagati, dove abitano. La materia documentaria è stata la base per costruire una drammaturgia precisa. Dopo due anni di scrittura mi sono lanciato nel casting che sapevo sarebbe stato «selvaggio», nel senso per attori non professionisti. Scegliere le persone continua a insegnare delle cose, soprattutto con chi porta il proprio vissuto. La sceneggiatura non è mai finita o chiusa ma può cambiare, e questo processo va avanti anche quando iniziano le prove. Loro imparano a prendere confidenza con la recitazione, a trovare la distanza giusta per stare davanti alla camera. Io utilizzo questo tempo per riadattare la sceneggiatura a chi sono individualmente – che è molto importante. Sono un borghese, un bianco, non sono né africano né rider, non ho fatto il viaggio verso l’Europa e non appartengo a quelle comunità. L’unico modo per avvicinarmi a un soggetto come questo è essere al cento per cento onesto.

Quando hai incontrato Abou Sangare e in che forma il suo vissuto è entrato nel suo personaggio?

Lo abbiamo conosciuto durante il casting, volevamo qualcuno con delle caratteristiche particolari e finalmente dopo due anni di ricerche lo abbiamo trovato a Amiens. Abou Sangare è arrivato in Francia nel 2017, era minorenne e ha chiesto di essere riconosciuto come tale però gli hanno negato questo titolo. Lui ha fatto ricorso, un test osseo ha dimostrato che in quel momento aveva circa diciotto anni, quindi era davvero minore all’arrivo ma ormai non più, così gli hanno negato i documenti. Grazie alle associazioni ha studiato da meccanico e quando abbiamo iniziato a lavorare insieme stava facendo la domanda di regolarizzazione col contratto di lavoro in un garage. A marzo ha ricevuto la risposta negativa della prefettura secondo la quale non dimostrava sufficiente integrazione – non aveva moglie e figli. Pensavamo che il premio come migliore attore al Certain Regard di Cannes potesse aiutarlo ma nel frattempo la situazione politica in Francia era divenuta più complicata. Abbiamo scritto a chiunque, finalmente la prefettura lo ha autorizzato a depositare una nuova domanda.

Il rapporto tra vissuto e messinscena si ritrova anche nelle invenzioni a cui ciascuno dei protagonisti fa ricorso per vivere o per superare gli ostacoli della legge.

Nel film Abou è un sans papier come nella vita, sa bene cosa significa, e anche se non ha mai chiesto l’asilo politico conosce l’esperienza di trovarsi davanti i funzionari amministrativi. Tutti i ruoli adattano le esperienze di chi li interpreta, la storia finale che racconta alla funzionaria Souleymane è quella di Sangare. Ma appunto è la sola maniera che ci sia una verità e che si manifesti con forza. E anche la menzogna ne è parte, crea un mistero, quasi ci fossero degli strati attraverso i quali vedere il «vero» Souleymane. Il film prova a capire cosa significa dover inventare una identità per tutto. La persona che fornisce loro le storie con cui ottenere l’asilo politico si definisce uno sceneggiatore. A me interessa sapere cosa accade invece con chi non rientra nel quadro per esempio dell’asilo, è sempre una questione di potere.

C’è molto equilibrio nel racconto che non è mai semplificato ma prova a illuminare i conflitti, a guardare i personaggi da vicino.

Ancora una volta era molto importante per me non fare un film da bianco, dunque ho cercato di cogliere le situazioni con gli occhi dei personaggi senza sostituirmi a loro.

Parlavi della situazione francese, pensi che ci sia una crescita del razzismo?

Sono i nostri politici a essere sempre più razzisti non le persone. Basta pensare che la coalizione di Macron che si definisce di centro ha accolto nella legge sull’immigrazione le posizioni dell’estrema destra. La storia di Souleymane uscirà in Francia il 10 ottobre, il contesto attuale dà al film un peso molto politico, io però non mi vedo come un regista militante; mi piace raccontare le storie di chi non ha voce.

Il ritmo del film è «à bout de souffle», molto veloce.
La rapidità era parte del gesto cinematografico ancora prima di scrivere la sceneggiatura. Sin dall’inizio volevo una temporalità stretta, due o tre giorni, senza sapere ancora come si sarebbero svolti. Questo anche per girare in strada, con una troupe leggera, senza bloccare la circolazione, lasciando fluire nelle immagini la città e la sua energia.

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