ExtraTerrestre

Borgo Rivola, l’ambiente ingessato

Il fatto della settimana Tra le province di Bologna e Ravenna, il monte Tondo è il più grande sito d’estrazione di gesso in Europa. Gli ambientalisti si oppongono al progetto di ampliamento della cava e ne chiedono la riconversione

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 27 agosto 2020

Vista dall’alto, sembra una pugnalata bianca: è la cava di Borgo Rivola, il più grande sito estrattivo gessoso dell’Unione Europea, che nel bel mezzo della Vena del Gesso, sul Monte Tondo, da oltre 60 anni sventra la montagna.

La Vena del Gesso, uno dei più importanti affioramenti gessosi in Europa, si sviluppa per 25 chilometri tra le Province di Bologna e Ravenna, tra le vallate dei fiumi Santerno, Senio e Sintria. Un paesaggio talmente spettacolare e raro, dal punto di vista ecosistemico, storico, geologico, da essere stato candidato come Patrimonio dell’Umanità Unesco.

I gessi, rocce evaporitiche, testimoniano la crisi di salinità messiniana, quando lo stretto di Gibilterra sei milioni di anni fa si chiuse e del mar Mediterraneo non rimasero che bacini d’acqua estremamente salata. I sali marini (tra cui il gesso) si concentrarono sui fondali creando grandi depositi evaporitici, che poi si innalzarono a causa dei movimenti della crosta terrestre durante il sollevamento dell’Appennino. Essendo un minerale solubile, il gesso ha permesso l’infiltrazione delle acque, creando così un reticolo di grotte e forme carsiche di superficie (doline, campi solcati e inghiottitoi).

Se prima degli anni ’50 la lavorazione del gesso non impattava troppo sull’ambiente e avveniva su piccola scala e in modo artigianale, come nel piccolo borgo di gesso dei Crivellari, a partire dal Dopoguerra l’estrazione del gesso divenne industriale e su vasta scala. «È motivo di vivo rincrescimento che l’esigenza industriale, anche quando potrebbe farlo con ben lieve sacrificio, non tenga alcun conto delle cose di interesse naturalistico, e scientifico in genere; questo si è verificato di recente per le pinete di Ravenna e accade qui a Rivola», diceva negli anni ’60 Pietro Zangheri, illustre naturalista romagnolo e tra i primi ambientalisti italiani.

IL MONTE TONDO È STATO quasi completamente distrutto, divorato dall’interno con 20 km di imponenti gallerie artificiali adatte a farci passare dei tir e coltivazioni all’aria aperta che hanno abbassato il crinale di 70 metri. Come se non bastasse, la multinazionale francese Saint Gobain, che gestisce attualmente la cava ha da poco richiesto alla regione Emilia Romagna un ulteriore ampliamento.
Da qui nasce il grido di allarme della Federazione Speleologica Regionale dell’Emilia Romagna (Fsrer), alla quale si uniscono i gruppi locali di Legambiente Lamone, Extinction Rebellion, Wwf Emilia Romagna, Fridays for Future Emilia Romagna, la sezione speleologica Cai e la Società speleologica italiana. Tutti contestano questa ulteriore espansione e chiedono alle autorità di stopparla.

PER CAPIRE MEGLIO, facciamo un passo indietro. Dal 1989 la cava di Monte Tondo diventa polo unico regionale, intensificandone lo sfruttamento. Nel 2001 viene redatto il Piae (Piano Infraregionale Attività Estrattive) che in seguito ad un rapporto Arpa stabilisce i limiti di estrazione. Vennero decisi 4,5 milioni di metri cubi, un quantitativo che sarebbe dovuto bastare indicativamente fino al 2032. Inizialmente gli speleologi avevano chiesto un quantitativo molto più basso per evitare la distruzione di importanti formazioni carsiche (in primis la Grotta Alta Che Soffia e l’Abisso Cinquanta). Ma alla fine dovettero cedere. Il compromesso, accettato da tutti, era di permettere l’estrazione fino al massimale stabilito, per poi lasciare in pace quel che restava della montagna e avviare (prima della chiusura della cava) una riconversione dell’attività produttiva per salvaguardare i posti di lavoro, in parte occupabili nel ripristino e nella naturalizzazione del sito.

«Ci lascia stupiti che oggi la multinazionale avanzi una richiesta di ulteriore ampliamento», spiegano Massimo Ercolani e Piero Lucci, presidente e vice della Federazione Speleologica: «La richiesta tra l’altro è avvenuta in gran segreto, nessuno ha coinvolto le associazioni. In pratica la multinazionale pretende un’estrazione sine die, e non ha nessuna intenzione di rinaturalizzare il sito entro il 2032, agitando il ricatto occupazionale. In tutti questi anni nessuno ha mai pensato a come rioccupare gli 80 addetti, ma c’è ancora il tempo per farlo».

Gli speleologi stanno per aprire un museo a Borgo Rivola, si potrebbe inoltre creare un museo geologico all’aperto proprio nel sito della cava, si potrebbero ristrutturare gli antichi borghi di gesso, ci sarebbe occupazione nel settore naturalistico, di tutela e valorizzazione ambientale, in quello degli scavi archeologici e del turismo, ora duramente penalizzato dalla cava. Molti siti archeologici e preistorici sono purtroppo andati persi per sempre. La stessa Grotta del Re Tiberio, importante luogo protostorico e meta turistica, è stata fortemente danneggiata, tanto che il piano di calpestio in alcune zone della grotta è sorretto da strutture in cemento armato (brutale rattoppo a una brutale devastazione). Se continuasse questa devastazione, si metterebbe in discussione anche la candidatura come Patrimonio per l’Umanità Unesco.

PUR NON ESSENDO DENTRO AL PARCO, la cava è nella zona contigua e quindi ci sono dei vincoli da rispettare. Inoltre è inserita nella Rete Natura 2000, cioè quegli habitat primari protetti dall’Europa. Non solo pipistrelli, ma anche altre specie sono minacciate. La felce Asplenium Sagittatum si è estinta da 50 anni anche a causa dei lavori di cava ed è stata da poco (a fatica) reintrodotta. Il Parco ha la responsabilità di tutelare questi habitat primari.
«L’estrazione è a tutti gli effetti una delle attività umane più impattanti e irreversibili: nessuno riformerà più il vuoto della montagna cavata, le fragili gallerie ipogee, le meraviglie della natura sotterranee perse per sempre (cristalli, stalattiti, abissi), per non parlare della contaminazione e deviazione dei torrenti sotterranei», spiega la Federazione Speleologica.

INTERPELLATO DAL MANIFESTO, il presidente dell’ente parco Antonio Venturi rifiuta di rispondere. Anche gli speleologi lamentano scarsa sensibilità da parte del parco, e temono un totale appiattimento agli interessi della multinazionale, così come avviene per i comuni interessati. la regione Emilia Romagna, da parte sua, non ha ancora voluto incontrare le federazione Speleo e ha commissionato uno studio a un’azienda privata per valutare gli impatti di un ulteriore ampliamento. «Siamo molto pessimisti, purtroppo. abbiamo chiesto carte e documenti ma per ora nessuno vuole dirci di che entità sarà questa espansione», racconta Piero Lucci. nel frattempo i sindacati (Cisl, Cgil e Uil), mettono le mani avanti, sostenendo che «la chiusura sarebbe un dramma occupazionale» e cercano un modo per far coesistere cava e parco. il solito assurdo dramma, che si ripete da decenni in ogni parte d’Italia, tra tutela dell’ambiente e diritto al lavoro. Così, a partire dal 2021 la regione, il parco, la provincia, l’unione dei comuni della bassa Romagna e la sovrintendenza, revisioneranno il Piae. a fronte delle proteste degli ambientalisti, in una nota recente, assicurano che sarà un percorso «condiviso e trasparente». «L’ambiente è il soggetto più debole, senza voce, e soprattutto finito», è il monito di Massimo Ercolani, presidente Fsrer, «continuare a pensare che la cava possa estrarre all’infinito, concessione dopo concessione, è una fallace e insostenibile bugia».

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