Pompato dalla grande stampa come il messia che avrebbe rivoluzionato il paese, da ieri Carlo Bonomi non è più presidente di Confindustria. Nessuno si è accorto dell’avvicendamento e questo la dice lunga sulla sua triste parabola, conclusa con l’elemosinare un posto all’università Luiss – l’ateneo di Confindustria – senza neanche poterlo chiedere in quanto non laureato, nonostante la sua biografia, scritta con troppo zelo, sostenesse il contrario.

Doveva portare “lo spirito milanese nei palazzi romani”. Dall’alto delle sue piccole aziende del settore medicale dove il suo ruolo è sempre stato più finanziario che imprenditoriale, chi conosceva bene il presidente di Assolombarda aveva già vaticinato che l’unica cosa che gli interessava veramente fossero i bonus statali a pioggia che ogni governo durante il suo mandato ha puntualmente elargito alle imprese italiane, pappandosi gran parte dei soldi del Pnrr, aumentati ultimamente da Meloni e Fitto.

In questo Bonomi è stato degno rappresentante degli imprenditori italiani che, con poche e lodevoli eccezioni, sbraitano contro gli sprechi del bilancio pubblico e del «welfare insostenibile» mentre ne vivono sussidiati lautamente.

La favola della «mancata produttività» come atavico male dell’economia italiana è oramai confutata a livello mondiale perfino da Fmi e Ocse. Bonomi però ha continuato a spacciarla fino a pochi mesi fa contestando in qualsiasi modo la caduta vertiginosa dei salari, falcidiati dall’inflazione. Chi lo sponsorizzò lo ha abbandonato da tempo. Ma continua a non riconoscere che per cambiare il paese serve partire dalla classe imprenditoriale. Sussidiata.