Cultura

Bona de Mandiargues, nel segno onirico delle metamorfosi

Bona de Mandiargues, nel segno onirico delle metamorfosiBona de Mandiargues, «Trittico della nascita», 1965 (collezione Gallerie d’arte moderna e contemporanea, Ferrara) – Foto di Andrea Mignogna

Mostre Al museo Nivola di Orani, in Sardegna, una grande retrospettiva dedicata all'artista, scomparsa nel 2000. A cura di Giuliana Altea e Antonella Camarda, presenta un itinerario di ricerca che abbraccia cinquant'anni fra Italia, Francia e Messico

Pubblicato circa un anno faEdizione del 26 settembre 2023

«Ho fatto la lumaca tutto l’inverno. Volete seguirmi fino al fondo di questa spirale?». Scriveva così Bona de Mandiargues (nata a Roma nel 1926 e morta a Parigi nel 2000) per annunciare il suo ritorno sulle scene dell’arte, dopo la nascita della figlia Sibylle. Esplodevano allora gli anni Settanta e quell’animale prescelto per via di affinità elettiva sarà il suo totem per tutta la vita, il più assiduo nell’atlante delle creature viventi cui la pittrice attingerà per via di ibridazioni, metamorfosi, improvvisi scarti del raziocinio a favore della visione fantastica. Nonostante una biografia che contempla mareggiate, crisi, partenze e ritorni, la lumaca scelta da Bona de Mandiargues (che ha la sua casa «cucita addosso») porta con sé anche la capacità di lettura introspettiva fra i segni del mondo per tessere un filo, un ordine misterioso.

Autoritratto sulla spiaggia di Santa Lucia, Sardegna, anni ’50. Courtesy Sibylle Pieyre de Mandiargues
Bona de Mandiargues, La volta, foto di Andrea Mignogna

ARTISTA «DESTINATA» per eredità famigliare – era la nipote di Filippo De Pisis e proprio grazie all’incoraggiamento dello zio aveva mosso i primi passi in quel campo, seguendolo appena diciannovenne a Venezia e, in seguito, a Parigi per allargare il respiro nell’atmosfera intellettuale e cosmopolita della città – con la sua folta produzione Bona ha costeggiato il secondo Surrealismo, l’informale materico, l’assemblage, lasciato l’Europa e attraversato l’Atlantico. Ma non ha goduto, negli ultimi decenni, di un riscontro critico che ne disciplinasse il linguaggio, accogliendo i vari periodi creativi in un percorso coerente (seppure illuminato sempre dalla sua attitudine sperimentale effervescente).
A renderle omaggio, colmando quella «sospensione» con una meritoria volontà di riscoperta, è ora la Sardegna con il museo Nivola di Orani diretto da Luca Cheri. È qui, infatti, che si è inaugurata Bona de Mandiargues. Rifare il mondo, una densa retrospettiva con circa settanta opere, visitabile fino al 6 febbraio 2024 (catalogo Allemandi).
La mostra è nata dall’incontro delle curatrici Giuliana Altea e Antonella Camarda con Sibylle de Mandiargues, figlia di Bona trasferitasi a Cagliari, attenta custode di un cospicuo corpus delle opere di sua madre. «Siamo rimaste colpite dalla qualità del lavoro dell’artista e affascinate da un itinerario di ricerca ricco di svolte inattese, che si è svolto per cinquant’anni su uno scenario internazionale, tra Francia, Italia e Messico – spiega Altea, che presiede la Fondazione Costantino Nivola –. Il periodo cruciale del suo percorso cade subito dopo il primo viaggio in Messico, nel 1958, quando comincia a sperimentare la tecnica dell’assemblaggio, con lavori di grande forza e concisione, ma sono di notevole impatto anche i quadri materici di poco precedenti, in dialogo con Burri e Dubuffet, le piccole tele iniziali con la loro figurazione straniata e visionaria, la serie straordinaria e inquietante delle opere mature sul tema della follia».

Per una felice coincidenza, quei lavori dettati da un bricolage irrorato da archetipi e ricordi ancestrali delle culture primigenie entrano in corrispondenza amorosa con le sculture di Nivola esposte poco più in là, nello stesso museo, formando così un’originale trama di madeleine visive a distanza. Ma il vero e mai interrotto dialogo di questa pittrice – che può inserirsi nel gotha surrealista con Leonora Carrington o Dorothea Tanning – è stato quello imbastito con la letteratura, casa parallela e meditativo «guscio di lumaca». Legata alla parola lei stessa (postumo uscirà Vivre en herbe, racconto romanzato della sua infanzia), sposò, divorziò e risposò di nuovo lo scrittore André Pieyre de Mandiargues, che agli esordi la introdusse nell’ambiente surrealista francese e interrogò le sue tele in diversi testi critici, offrendo una lettura costellata di «ascese e cadute». Negli anni messicani, assai prolifici anche per le deviazioni dal linguaggio pittorico e il confronto insistito con le culture «altre», consumò una burrascosa passione con Octavio Paz, ancora una volta un poeta e scrittore, che intuì il sacro fuoco mediterraneo sotto lo zampillare di immagini di meraviglia.

L’ARTE DI BONA, dunque, sarà capita e profondamente esplorata soprattutto dai letterati. Ungaretti descrisse nel 1953, in occasione di una mostra a Modena, quei suoi relitti abbandonati sulla sabbia dalle maree come «occhiute radici macerate, levigate, inasprite dal permanere nei silenzi d’acqua». Calvino colse nell’atto di cucire insieme ritagli di stoffa le ferite sotterranee, un «mondo lacerato come panno che cede allo strappo scoprendo bianca e improvvisa la pelle». Nessuno di loro si spaventò di fronte alla mutevolezza dei generi avvicinati dalla pittrice perché l’accesso ai luoghi dell’altrove – i poeti lo sanno – è sempre consentito, con qualsiasi mezzo necessario. Un immaginario trasformativo quello di Bona de Mandiargues, che sbarcherà in Laguna, alla Biennale di Venezia 2024, nella mostra Stranieri ovunque del curatore brasiliano Adriano Pedrosa.

 

AL MAN DI NUORO

Matisse, lo scultore del corpo provvisorio

Henri Matisse, «Nu couché II», 1927, Musée d’Orsay Paris Photo © François Fernandez © Succession H. Matisse, by Siae 202

Sempre nell’ambito delle metamorfosi, questa volta di corpi che in progressione si smaterializzano fino ad alludere alle forme «fisiche» per divenire «luoghi transitori», il Man di Nuoro ha dedicato una mostra al Matisse meno conosciuto: lo scultore.

Il progetto espositivo, a cura di Chiara Gatti, rilegge e adatta agli spazi sardi l’itinerario complesso di Matisse Métamorphoses, mostra organizzata nel 2019 dalla Kunsthaus di Zurigo e dal Museo Matisse di Nizza. Visitabile fino al 12 novembre, la rassegna fra nudi distesi, figure sedute, torsioni ardite di busti, ritratti che passano dall’effetto naturalistico a una radicalità inconsueta, racconta quel processo di astrazione che si invera all’interno della materia stessa (il bronzo), conducendo Matisse a scardinanti soluzioni compositive che privilegiano (come in pittura) la sintesi mentale, il segno dirimente, al dettaglio realistico.

È probabile che il Matisse scultore sia rimasto nel sottotesto della storia dell’arte a causa delle sue opere di piccolo formato. Nel percorso allestito nel museo, le vediamo scorrere una dopo l’altra, in un raffronto ravvicinato con alcune immagini fotografiche o punteggiate da stilizzate maschere africane (in una sala a parte, sono proposte anche due statuette arcaiche sarde). I ritorni non rari sullo stesso soggetto, per via di togliere, lasciando intatte le tracce emotive, riflettono alla perfezione un metodo creativo. Matisse si distaccava dai suoi lavori per osservarli con occhi diversi e poi riprenderne il filo, modificando, rielaborando, rendendo il corpo «provvisorio». Tutto è visibile, anche la dimensione temporale e fenomenologica.

D’altronde, scriveva in Note di un pittore «condenserò il significato di questo corpo, ricercandone le linee essenziali. Il fascino sarà meno evidente al primo sguardo, ma alla lunga dovrà sprigionarsi dalla nuova immagine che avrò ottenuto, e che avrà un significato più ampio, più pienamente umano».

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