Bombe al posto del dialogo: si sono “dimenticati” l’Iraq
Lotta all'Isis In Siria si negozia, seppur con veti incrociati. In Iraq no: nessuno mette una pezza ai settarismi interni. Sunniti, sciiti e kurdi vogliono separarsi, rischiando di far vincere i fautori del "divite et impera"
Lotta all'Isis In Siria si negozia, seppur con veti incrociati. In Iraq no: nessuno mette una pezza ai settarismi interni. Sunniti, sciiti e kurdi vogliono separarsi, rischiando di far vincere i fautori del "divite et impera"
L’esplosione in volo del jet russo per mano del turco Erdogan preannuncia un futuro incerto. Il rumore di quell’esplosione rimbomba anche in Iraq, impantanato in una strategia globale che è solo militare. Mai diplomatica, che lavori al dialogo costruttivo tra le diverse anime del paese.
La Russia strumentalizza l’Iraq per prendersi la Siria, i sonni dell’Occidente sono turbati dall’incubo Assad. Eppure il paese è profondamente diviso in etnie e fedi diverse, distanza che rallenta la controffensiva anti-Isis.
Se la realtà è questa c’è da chiedersi a che serva l’intervento esterno.
In Siria alle bombe si affianca il negoziato, seppur limitato e condizionato dagli interessi dei due fronti, il pro e l’anti Assad.
In Iraq no: si bombarda Ramadi, si bombarda Mosul, si bombarda Sinjar, ma non si guarda al caos interno.
Per la prima volta ieri la portaerei francese Charles de Gaulle ha colpito target Isis a Ramadi e Mosul. Resta però in stand by la controffensiva governativa nella provincia di Anbar, ma soprattutto il coinvolgimento della comunità sunnita: la formazione di milizie locali annunciata dal governo procede a stento, goccia nell’oceano dei settarismi interni.
L’esercito di Baghdad ha liberato 22 quartieri di Ramadi su 39, ha detto ieri il capo delle forze irachene anti-terrorismo.
Agli Stati uniti non basta. Dopotutto, dice la Casa Bianca (dimenticando come ha demolito in un decennio l’esercito iracheno), armi continuiamo a mandarne. Facendo infuriare il governo regionale del Kurdistan: «La coalizione manda tutto a Baghdad – ci diceva pochi giorni fa il portavoce del Krg, Safin Dezaee – Anche quelle destinate ai nostri peshmerga, perché i loro team le ispezionino. Una perdita di tempo. Siamo in prima linea senza armi pesanti».
Erbil si lamenta ma ha saputo ritagliarsi uno spazio grazie alle capacità militari dei peshmerga e al sostegno esterno, soprattutto turco.
Ankara vede in Erbil l’anti-Pkk, i kurdi con cui dialogare, quelli di cui vendere il petrolio. E mentre bombarda i combattenti di Ocalan nelle montagne irachene di Qandil e soffoca – sfruttando l’Isis – il progetto democratico nella siriana Rojava, all’alleato Barzani fornisce aiuto.
Perché la tenuta del Kurdistan iracheno serve gli interessi turchi: greggio per l’Europa e opposizione ideologica al Pkk.
Si lamentano anche le tribù sunnite: in un’intervista al Washington Times, i leader tribali hanno accusato gli Usa di aver prima assassinato la sollevazione sunnita nel 2008 e di aver poi costretto la comunità a sottomettersi ad un governo sciita incapace di arginare le influenze iraniane: «Il solo modo che gli Usa hanno per comunicare con noi è tramite Baghdad – dice uno dei leader, Sheikh Almahlawi – e quel governo ci combatte tramite le milizie sciite».
E l’Iraq si frammenta.
Dal 2003, dalle prime bombe su Saddam, Washington non ha mai nascosto l’intenzione di fare del paese uno Stato federale, dove ogni etnia e religione controllasse la sua fetta di territorio. Per molti l’applicazione del modello libanese – le massime cariche dello Stato affidate ognuna al rappresentante di una diversa setta – non è altro che la realizzazione del motto imperialista “divide et impera”.
Di certo gli Stati uniti una parte dell’obiettivo l’hanno archiviata: cancellare l’unità di un paese disegnato a tavolino con Sykes-Picot. La realtà parla da sé: nessuna comunità pare intenzionata a vivere con le altre, divisione amplificata dalla lotta globale all’Isis.
A non tutti però un Iraq-puzzle piace.
Uno di questi è l’Iran, non tanto preoccupato per il prezzo pagato dai civili, quanto interessato ad un governo centrale capace di gestire l’intero paese, da Mosul a Bassora. Perché l’Iraq è strategico: geograficamente e politicamente è il collegamento diretto con i bastioni sciiti di Damasco e Hezbollah. In Iraq gli stivali dei pasdaran sono poggiati da tempo, primo passo verso la Siria.
Per questo ieri l’Ayatollah Khamenei ha alzato la voce contro la strategia della separazione Usa: «Gli americani non dovrebbero essere autorizzati a parlare di divisione dell’Iraq. L’unità nazionale va protetta».
Che dietro le quinte ci fossero i burattinai occidentali è oggi indiscutibile. Che l’Iraq sia già diviso, anche.
La comunità sunnita non ha fiducia nel governo (lo ha dimostrato con proteste accese, uccise dall’ex premier al-Maliki). Le milizie sciite approfittano del potere archiviato per espandersi. I kurdi allargano i confini e gli scontri a Kirkuk con i miliziani sciiti proseguono.
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