A meno di una settimana dall’autobomba che ha devastato una stazione dei bus ad Ankara, ieri è stata di nuovo la volta di Istanbul. Un’esplosione ha colpito uno dei quartieri più frequentati della città, Taksim, la zona dei centri commerciali e dei negozi delle marche internazionali. La bomba è saltata in aria in via Balo Sokak, all’angolo della più trafficata Istiktal Avenue: il bilancio del Ministero degli Esteri parla di 5 morti e 36 feriti, tra cui un bambino e alcuni turisti stranieri (11 israeliani di cui 6 palestinesi, un tedesco, due irlandesi, un emiratino, un islandese e un iraniano). Tra le vittime tre israeliani e un iraniano.

Secondo le autorità turche, l’ordigno che l’attentatore voleva posizionare è esploso prima, uccidendolo all’istante: «Ha detonato la bomba prima di raggiungere il luogo prefissato perché spaventato dalla polizia», ha commentato un funzionario, secondo cui l’obiettivo era una zona più affollata.

Le ore successive all’attacco hanno seguito l’identico copione di quelli precedenti: il governo ha ordinato alla stampa di non pubblicare foto e video dell’attacco e ha poi puntato il dito contro il Pkk. Fonti governative hanno detto che le prime informazioni a disposizione indicavano nel Partito Kurdo dei Lavoratori il responsabile. Dichiarazioni molto simili a quelle seguite all’attentato di Ankara di domenica scorsa, in cui morirono 37 persone, e quello di un mese fa, sempre nella capitale, che uccise 27 soldati turchi.

In entrambi i casi il partito di governo Akp ha subito imbastito una facile propaganda, accusando sia Pkk che Pyd, il partito dei kurdi di Rojava. Pochi giorni dopo la smentita: a rivendicare è stato il movimento separatista kurdo Tak, costola del Pkk, ma da tempo lontano dal movimento di Ocalan, accusato di essere troppo morbido. In entrambi gli espisodi, il Tak ha giustificato la propria azione come rappresaglia per il massacro subito dalla comunità kurdo-turca.

Ma la strategia del presidente Erdogan non è cambiata, né dal punto di vista militare che mediatico: la campagna anti-kurda contro il sud-est si è intensificata, soffocando altre comunità con coprifuoco e assedi, e si è abbattuta con più durezza anche contro il nord dell’Iraq e il nord della Siria. Ancora venerdì e nella mattinata di ieri le postazioni del Pkk sulle montagne di Qandil sono state ripetutamente bombardate dagli F16 di Ankara, violazione della sovranità dell’Iraq, che insiste nel condannare le operazioni senza che le orecchie della comunità internazionale si degnino di ascoltare.

Più tardi, nel pomeriggio di ieri, si è fatta strada l’ipotesi Stato Islamico. Nei social network veniva addirittura indicato il nome del presunto attentatore: Savas Yildiz, cittadino turco, membro dell’Isis già noto alle autorità da ottobre. Di certo si sa che è stato prelevato un campione di Dna del padre per ulteriori verifiche.

Che si tratti di nuovo del Tak o che dietro l’attacco al cuore di Istanbul ci sia lo Stato Islamico, appare chiaro che la Turchia sta pagando la strategia finora giocata in casa e in Medio Oriente: il ruolo di destabilizzazione e accensione dei conflitti, la guerra lanciata contro le comunità kurde, il sostegno a gruppi islamisti vengono fatti pagare ai cittadini. Non la paga, però, il presidente Erdogan che sfrutta le occasioni che lui stesso ha aiutato a creare per generare paura tra la gente e stringere la morsa su voci critiche e opposizioni. E, fuori, per ottenere l’indefesso sostegno occidentale.

Un martellamento mediatico che trascina con sé l’opinione pubblica, la cui mente è subito andata al movimento kurdo: «Abbiamo sentito l’esplosione e poi la polizia è arrivata e ha chiuso la strada – ha raccontato il proprietario del ristorante di kebab proprio di fronte al luogo dell’attacco – Questi attacchi continuano ad accadere e non dovrebbe sorprenderci: l’esercito combatte una guerra a sud-est ed è ovvio che la gente sia furiosa. Devono ritirarsi: la violenza causa solo altra violenza». Una brutalità registrata anche dall’Onu: l’Working Group sulle Sparizioni Forzate ha chiesto alla Turchia di rispettare il diritto internazionale a sud-est e di indagare le violazioni commesse dall’esercito.