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Bolaño in stile realvisceralista

Bolaño in stile realvisceralistaRoberto Bolaño

Roberto Bolaño La provvisorietà e il nomadismo, il caso e il male: «i detective selvaggi» nella nuova traduzione di Adelphi. una occasione per mettere a fuoco il gesto stilistico dell’autore cileno

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 20 aprile 2014

Negli ultimi due decenni pochi scrittori hanno avuto la fortuna di Roberto Bolaño, pochi hanno suscitato la stessa forma di culto postumo. Se la morte precoce ha contribuito a costruire un mito, com’è accaduto con David Foster Wallace, è indubbio che Bolaño e Wallace avrebbero ricevuto la stessa attenzione anche se non fossero morti a quarantasei o a cinquant’anni. In maniere molto diverse, entrambi sono riusciti a fare quello che ci si aspetta dagli scrittori che giudichiamo classici: hanno dato una forma plausibile al paesaggio psichico e morale di un’epoca, e lo hanno fatto in una prospettiva che è al tempo stesso radicata in un luogo ed extraterritoriale, comprensibile in Messico, in Cile, in California o in Europa.

In questi giorni Adelphi pubblica una nuova traduzione italiana di I detective selvaggi a cura di Ilide Carmignani (pp. 696, euro 25,00) che nel 2007-2008 aveva tradotto l’altro capolavoro di Bolaño, 2666, uscito postumo nel 2004. I detective selvaggi è il romanzo che ha reso famoso Bolaño (la prima traduzione italiana, curata da Maria Nicola, era stata uscita nel 2003 per Sellerio), 2666 è il romanzo che lo ha consacrato. Perché le sue opere hanno questa forza di rivelazione? Perché molti considerano Bolaño il più importante scrittore vissuto fra il XX e il XXI secolo?

Leggendo i suoi libri in sequenza si rimane colpiti da una rete di temi e di gesti stilistici che, se visti da lontano, formano un sistema. Alcuni motivi di fondo sono visibili e ricorrenti. I mondi narrativi di Bolaño sono abitati da personaggi programmaticamente anticonformisti, aperti all’esperienza e all’avventura: aspiranti poeti, letterati, reporter, prostitute, criminali, poliziotti dediti alla riflessione. Ciò che li accomuna è la distanza dalla prosa quotidiana: nessuno di loro ha un lavoro autenticamente borghese, un lavoro inteso come attività prevedibile e ripetitiva; nessuno ha radici che lo riportino a un centro; ognuno stabilisce legami provvisori con gli altri e con gli ambienti in attesa di un altro sradicamento o della persona successiva. Gli eroi di Bolaño vivono in una dimensione nomadica, precaria e globale; emigrano, viaggiano fra i continenti, fuggono da un regime politico, dalle difficoltà materiali o dalla noia; oppure sono chierici vaganti contemporanei, come i critici letterari che incontriamo nella prima parte di 2666 e che usano l’aereo nello stesso modo in cui i personaggi dei romanzi cavallereschi medievali e rinascimentali usavano il cavallo o l’ippogrifo.

In questo senso, pur senza parlarne direttamente e trasformarle in un tema, Bolaño ha saputo raccontare, con una forza che non ha eguali, la percezione della vita che si ha in un mondo globalizzato e interconnesso, fondato sugli spostamenti, sulla provvisorietà dei rapporti, sulla precarietà di tutte le condizioni. Ma questi mondi vitali e avventurosi sono circondati dal Male e governati dal Caso, vero motore immobile dei romanzi di Bolaño; il cielo di carta che avvolge le storie è sempre sul punto di squarciarsi mostrando la gratuità e la violenza che, come delle zone d’ombra destinate ad allungarsi, stanno prima, dopo o in mezzo alle vicende dei personaggi. Il Male di cui Bolaño parla ha spesso un’origine storica (gli sfondi su cui si muovono i suoi personaggi sono le dittature militari sudamericane, la criminalità, i narcotrafficanti, i delitti di Ciudad Juárez, il nazismo, la tratta degli schiavi), ma è innanzitutto una condizione ontologica, inscritta nel fondo insensato e insanguinato della condizione umana.

Se il Caso e il Male, la provvisorietà e il nomadismo sono i temi ricorrenti di Bolaño, il fascino della sua opera discende in primo luogo dai gesti stilistici che danno forma alla sua realtà, e in particolare da una dialettica fra ordine e disordine, fra elementi centripeti e elementi centrifughi che agisce a ogni livello del testo: nella trama dei romanzi e dei racconti, negli episodi singoli, nel modo di costruire lo spazio, il tempo, i personaggi, le azioni, le frasi. Le opere di Bolaño sembrano tendere a un fine preciso: girano attorno a un enigma da risolvere, alla ricerca di un personaggio (Cesárea Tinajero nei Detective selvaggi, per esempio, o Benno von Arcimboldi in 2666) a una trama poliziesca (La pista di ghiaccio, per esempio, o Stella distante). Apparentemente sono delle quêtes, dei romanzi di formazione, o dei romanzi di destino però le quêtes non hanno una vera soluzione, il Bildungsroman non produce Bildung, il destino coincide col caso.

Un romanzo come I detective selvaggi narra la storia di un gruppo di giovani poeti ventenni, ne segue le peregrinazioni e la dispersione fra il 1975 e il 1986: racconta la biografia romanzesca di Roberto Bolaño (l’Arturo Belano del romanzo), del suo amico Mario Santiago Papasquiaro (Ulises Lima) e dei giovani poeti messicani che a metà degli anni Settanta fondarono l’avanguardia degli infrarealisti (i «realvisceralisti»). Ma questo moto direzionato e leggibile è contraddetto da movimenti uguali e contrari. Il risultato, come accadrà anche in 2666, è un grande romanzo polistorico esploso, un’opera-mondo fatta di frammenti. I personaggi che incrociano la propria vita per anni o per attimi finiscono per smarrirsi nelle proprie derive personali; ognuno di loro ha una storia che il romanzo segue dettagliatamente per un certo numero di pagine e che poi lascia cadere; ogni capitolo è pieno di eventi raccontati con minuzia, ma non tende ad alcunché di sostanziale o di definitivo.

Se il rizoma è il modello di rapporto fra il tutto e le parti egemone nel nostro tempo, nessuno scrittore contemporaneo ha saputo introiettare questa forma nelle proprie opere meglio di Bolaño. Nei suoi libri l’esigenza di condurre la pagina da qualche parte confligge di continuo con movimenti dispersivi: i narratori e i punti di vista si moltiplicano; il «filo della storia», quello che per Musil è il segreto regressivo di ogni narrazione, «l’eterno trucco […]col quale persino le bambinaie calmano i loro piccoli», viene allargato e disturbato dai dettagli, dalle digressioni, dagli eventi secondari, dagli incontri senza seguito.

Benché ogni pagina sia interessante e faccia progredire il racconto, il flusso narrativo è imprevedibile, gli episodi si sciolgono all’improvviso, le chiuse sono rapide, inattese o tirate via; benché molti episodi sembrino preludere a un momento di Spannung o a un’epifania rivelatoria, l’epifania non arriva, o rivela altro, o implode. Rizomatica è la percezione dello spazio, che si allarga in una dimensione globale, così come fanno i personaggi, che alla fine si allontano gli uni dagli altri; rizomatica è l’identità degli individui, che vivono di legami precari e sono fatti di parti, di forze e controforze tenute insieme secondo un equilibrio fragile e momentaneo. Questa stessa logica penetra nelle parti più piccole dei testi, a cominciare dalla struttura delle frasi narrative.

I detective selvaggi e 2666 mettono insieme segmenti disparati organizzandoli in un intero gigantesco, ma il sostrato della costruzione resta paratattico, povero di nessi causali e finali, fatto di pezzi collegati per asindeto e montaggio. Questo fondo elencatorio si rivela nell’effetto di allargamento e di rallentato che dà il ritmo a molte scene di Bolaño, e nei cataloghi che costellano le sue opere: il segmento più lungo di 2666 è di fatto un elenco delle donne uccise a Santa Teresa (cioè a Ciudad Juárez) e copre più di trecento pagine nell’edizione Adelphi; alcune parti dei Detective selvaggi sono occupate da un catalogo dei poeti omosessuali, eterosessuali e bisessuali, altre da un catalogo delle avanguardie. Ma la paratassi è diffusa ovunque, in ogni pagina, in ogni paragrafo: è il segno del peso che la contingenza e la particolarità hanno in quest’opera.

Un altro gesto stilistico carico di significati è l’uso di metafore. Alcune sono implicite nella scelta degli aggettivi («un sudore rettile», «un’alba svenuta e fulminata»), altre sono esplicite e spesso vengono introdotte da un «come» o un «come se» («i loro movimenti furono misurati e discreti come quelli di due astronauti scesi su un pianeta dove tutto è incerto»; «il silenzio si fece sempre più insopportabile, come se al suo interno, in un interregno di silenzio, si stessero formando lentamente parole straziate e idee strazianti»). Le metafore legano il singolo episodio ai campi di forze che lo circondano; aprono gli spazi onirici e visionari all’interno dei quali la gratuità e la violenza nascosti al fondo delle cose si rivelano.

Ma ciò che rende davvero contemporanei i romanzi di Bolaño è il modo in cui questo mondo casuale, precario e violento viene abitato. Nelle epifanie riflessive che li attraversano, i personaggi appaiono pieni di stanchezza e solitudine; nei momenti ordinari appaiono curiosi, attratti dalle avventure, pieni di una disperata vitalità. Gli eroi di Bolaño discendono dai picari più che dai personaggi dei romanzi di destino; agiscono molto e senza uno scopo preciso, secondo una logica di pura dépense, e pensano poco; lo fanno per lo più in istanti brevi, densi e epifanici; attribuiscono più importanza allo spazio che al tempo, all’esplorazione dei possibili offerti dalla vita che alla riflessione sulla vita che trascorre; non si dilungano in tormenti morali o in bilanci esistenziali. Benché sia privo di significato, il mondo di Bolaño è multiforme, interessante e vario. In questo senso Bolaño è l’antitesi di un altro grande scrittore che ha fondato la propria visione del mondo sull’abolizione dei nessi causali e finali, sulla paratassi, sull’elenco – Flaubert. Gli elenchi di Flaubert mostrano l’identità sostanziale e la profonda banalità degli individui; gli elenchi di Bolaño ne mostrano la differenza polimorfa; il mondo di Flaubert è grigio, dominato dalla noia, dalla ripetizione, dal senso di spreco; il mondo di Bolaño è colorato e molteplice: conosce lo spreco ma, nonostante l’epigrafe baudelairiana con cui si apre 2666 («Un’oasi d’orrore in un deserto di noia»), non conosce la ripetizione o la noia, se non a parole e in senso lato, come esito finale di tutto, come eterno ritorno di pure differenze in un mondo senza scopo.

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