Bohumil Hrabal, epifania di uno stramparlone
Classici moderni Uscito nel 1964 e tradotto ora per la prima volta da Einaudi, «Lezioni di ballo per anziani e progrediti» è un esilarante catalogo di casi clinici, e un vertiginoso tour-de-force stilistico
Classici moderni Uscito nel 1964 e tradotto ora per la prima volta da Einaudi, «Lezioni di ballo per anziani e progrediti» è un esilarante catalogo di casi clinici, e un vertiginoso tour-de-force stilistico
Scrivendo nel 1970 quella travolgente dichiarazione di poetica che va sotto il titolo di Manuale di un apprendista stramparlone, Bohumil Hrabal si definì – oltre che «allievo della cattedra di euforia» e «bevitore della luna» – «un signore incinto di giovinezza che invecchia già». Etichette folgoranti che restituiscono efficacemente, oltre all’indole paradossale dello scrittore, anche l’identità dell’io narrante anonimo di Lezioni di ballo per anziani e progrediti, vertiginoso tour-de-force stilistico pubblicato nel 1964 e ora proposto da Einaudi (pp. 108, euro 17,50) in una magnifica traduzione di Giuseppe Dierna.
Esaltazione, ebbrezza (forse anche nel senso non figurato del termine), nonché uno stupore quasi fanciullesco a dispetto dell’età anagrafica sono i tratti particolari che contraddistinguono il protagonista, un anziano ma vispo ex calzolaio che, con i suoi ricordi sul bel tempo che fu, si impegna a intrattenere una non meglio nota «signorina», ennesima incarnazione dell’Eterno Femminino oltre che degna erede delle innumerevoli «belle sventolone» da lui amate in passato. Aneddoti strambi, ovviamente non verificabili e comunque estremamente inverosimili, si inanellano uno dopo l’altro in un profluvio ininterrotto che nulla concede alla logica, né tantomeno al buon senso.
Il risultato è un testo torrenziale dalla cui sintassi è bandito il punto fermo e dove l’impellenza del dire travolge ogni freno, sfociando in un delirio che irride alla possibilità stessa di uno sviluppo narrativo lineare. Allo stesso tempo, questa «fantasmagoria artistica» (così la definì l’autore), peraltro impietosamente sfrondata dagli interventi della censura cecoslovacca, è un esempio emblematico del metodo di lavoro di Hrabal e della sua predisposizione a tornare su quanto già scritto, ad assemblare testi propri e altrui mediante procedimenti analoghi a quelli del montaggio cinematografico o del collage.
Torsioni espressive
Alle origini di Lezioni di ballo c’è infatti i Dolori del vecchio Werther, un abbozzo più volte rimaneggiato, fedele trascrizione delle strabilianti storielle raccontategli dallo zio Josef detto Pepin, che nel 1949 lo veniva spesso a trovare a Praga, sempre armato di una bottiglia di rhum o di amaro alle erbe. Hrabal riprenderà quella sarabanda di aneddoti scombinati nel 1963, reduce dal fragoroso successo dei racconti di La perlina sul fondo e sull’onda della liberalizzazione in ambito editoriale che avrebbe anticipato di poco la Primavera politica. A distanza di anni i trascinanti monologhi dello zio Pepin, i ricordi di quando aveva servito «nell’esercito più bello del mondo» (quello imperial-regio) o lavorato come calzolaio, verranno accostati ad autentici objet trouvé verbali, non meno eterogenei e bizzarri: citazioni dall’«indispensabile libriccino del signor Batista sull’igiene sessuale», spiazzanti rimandi al Libro dei sogni di Anna Nováková, pubblicità di fine secolo che magnificano gli effetti di preparati portentosi e ripetute apparizioni del poeta-filosofo Egon Bondy, una delle figure-chiave dell’underground praghese, amico di Hrabal fin dagli anni Cinquanta.
Da una parte, dunque, Lezioni di ballo pare confermare la tendenza del suo autore a definirsi provocatoriamente più che uno scrittore, un «trascrittore», ovvero un modesto «ripetitore» di impulsi narrativi altrui, in ossequio al metodo surrealista già elaborato da André Breton. E tuttavia, nel passaggio dal parlato allo scritto, la lingua orale delle strade e delle birrerie praghesi viene sottoposta (come osserva Dierna nella prefazione) a quell’indispensabile torsione espressiva capace di dare al lettore l’impressione che – avrebbe detto Céline, altro indefesso sostenitore dell’argot – «l’autore gli stia parlando all’orecchio». L’ostinata cadenza ritmica che emerge nitida anche nella traduzione, la giustapposizione dei singoli frammenti secondo gli opposti principi del contrasto e della similitudine, l’insistenza su alcuni personaggi-tipo – anzitutto quelli della «bella sventolona» e del maschio «vincitore» – che in infinite variazioni si stagliano ciclicamente in primo piano, come in una sala invasa da danzatori di valzer: tutto ciò contribuisce a distanziare Lezioni di ballo da una mera trascrizione stenografica di ciance da osteria.
Al tempo stesso, la figura del senile affabulatore, virtuoso «dell’arte di vincere continuamente nel linguaggio e col linguaggio», ossia di reinventare la realtà grazie alla mitopoiesi, preannuncia già quello che negli anni Sessanta diventerà il vero nume tutelare dell’opera di Hrabal, e cioè il cosiddetto pabitel, o «stramparlone». Neologismo coniato dall’artista Jiri Kolar, il termine pabitel indica una sorta di personaggio donchisciottesco a metà tra l’insipiente e il profeta, perso nei meandri irrazionali della chiacchiera, della fanfaronata, dell’aneddoto strampalato. Un tipo umano eminentemente cecoslovacco, sosteneva lo scrittore nato a Brno nel 1914, che lo ritrovava pressoché quotidianamente nelle birrerie da lui frequentate – quelle stesse che Hant’a, il protagonista di Una solitudine troppo rumorosa, elencherà tutte, in una sorta di slalom gigante dell’ebbrezza.
Tra banale e patologico
Catalogo esilarante di casi clinici, tipi bislacchi, delitti stravaganti, avvenimenti miracolosi, iperboliche conquiste amorose e non meno spropositati fallimenti, Lezioni di ballo è una chiara dimostrazione dell’abilità di Hrabal nell’esplorare l’incerto confine tra banalità e patologia, norma e eccezione, comicità e tragedia. Basti pensare alla vicenda del mastro fumista che «già per due volte si era impiastrellato dentro a una stufa, così che per disincastrarlo erano dovuti intervenire a colpi di piccone»; oppure a quella di Vincek, perseguitato dal dubbio che a morire affogato mentre faceva il bagno da piccolo fosse stato proprio lui, e non il fratellino gemello Ludvicek, come tutti si affannavano a ripetergli.
Se alcune di queste esili figurine nella loro assurdità sembrano preannunciare i protagonisti nelle opere della tarda maturità di Hrabal (come per l’appunto Hant’a, il «geniale» assemblatore di blocchi di libri pressati da mandare al macero), tutto particolare è il modo in cui Hrabal li fa sfilare lungo le pagine delle Lezioni. Prevale qui – come del resto anche nel quasi coevo Treni strettamente sorvegliati del 1965 – il tentativo di creare una successione initerrotta di immagini «la cui prospettiva – ha scritto Jiri Pelan – non viene definita univocamente dal soggetto ordinatore».
Una simile disposizione paratattica del materiale verbale trova il suo equivalente visivo nella tecnica del collage, genere coltivato dall’amico di Hrabal Kolar, nonché dallo scrittore stesso. Ma se in alcuni collage di Hrabal degli anni Cinquanta ad esempio il senso dei singoli accostamenti, per quanto inaspettato, restava comunque leggibile, qui invece a dominare è l’impressione – forse anche per via dei tagli della censura – che le tessere di questo mosaico si siano ricomposte in modo fortuito, come in seguito a una deflagrazione. Un effetto di apparente casualità certo non sgradito all’autore che altrove dichiarava orgoglioso: «una tovaglia sbrodolata è la mia bandiera».
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