Il motto «never complain – never explain» è scritto indelebilmente sul suo braccio. Una scelta recente per Libuše Jarcovjáková (è nata a Praga nel 1952, dove vive e lavora) quella di farsi questo tatuaggio (e poi un altro sull’altro braccio), consapevole che dietro l’apparenza si cela un significato più profondo.
Nel 2019 il suo libro Evokativ è stato nella shortlist del Paris Photo-Aperture Foundation PhotoBook Awards nella categoria PhotoBook of the Year: raccoglie una serie di immagini realizzate dalla fotografa nella sua città durante gli anni bui, dalla fine degli anni ’70 quando il regime comunista reprimeva ogni forma di libertà, fino alla rivoluzione di velluto. Jarcovjáková racconta un mondo underground che le appartiene: fotografa se stessa, i suoi amici, le persone che incontra nei locali gay e queer dove, malgrado tutto, si respira un’aria di «eterno carnevale», come è lei stessa ad affermare.

Un’atmosfera che si ritrova anche nelle sei foto in bianco e nero delle serie T-Club (anni ’80) e Vrazedné léto (Killing Summer) (1984) esposte nella collettiva Bohemia: History of an Idea, 1950-2000 alla Kunsthalle Praha (fino al 16 ottobre), dove il curatore Russell Ferguson propone possibili interpretazioni del concetto di bohème/bohémien attraverso un percorso artistico che tocca gli ultimi cinquant’anni del Novecento.

È soprattutto il linguaggio fotografico a farsi portavoce di stili di vita che spesso corrispondono a stati d’animo: la foto di Paulette Vielhomme al café Chez Moineau di Parigi, scattata nel 1952-54 da Ed Van der Elsken, ad esempio, rimanda immediatamente all’esistenzialismo, come alla beat generation quella di Fred W. McDarrah che riprende Allen Ginsberg con il gatto siamese o le immagini del film di Robert Frank e Alfred Leslie Pull My Daisy (1959), scritto e narrato da Jack Kerouac.

Sono presenti anche Francis Bacon fotografato da Bill Brandt e Penelope Tree da David Bailey, momenti del concerto di Altamont negli scatti di Bill Owens e la New York desolata di Peter Hujar, The Ballad of Sexual Dependency di Nan Goldin e procedere con l’artista cinese Wang Jin e la sua coloratissima, ironica e dissacrante To Marry a Mule dove il mulo, in primo piano, è avvolto nel tulle rosa.

In «T-Club» e «Vrazedné léto» (Killing Summer) racconti la vita notturna di Praga e la marginalità sociale, usando la fotografia quasi come uno specchio…
Non volevo che essere me stessa, lavorare in libertà. È difficile per me definire il mio lavoro una documentazione, perché quello che facevo è parte della mia autobiografia. Raccontavo come vivevo, quello che facevo, chi ero. Allora, erano gli anni Ottanta, fotografavo ogni giorno. Non pubblicavo quelle foto sulle riviste e non ho mai lavorato per il regime, facendo altri lavori avevo una certa libertà. Non volevo neanche sposarmi, anche se avevo una vita sessuale molto attiva, né avere una famiglia che mi avrebbe limitata. Ciò mi ha permesso di dedicarmi alla fotografia, ma senza l’ambizione di fare carriera, fotografando semplicemente chi incontravo. Per lo più erano miei amici ma ho fotografato anche altre persone.
Ad esempio, in quegli anni in base a degli accordi governativi, arrivarono nel paese oltre 80mila vietnamiti. Non conoscendo la lingua seguivano per tre mesi dei corsi di ceco. Io sono stata una delle loro insegnanti e questo mi ha dato la possibilità di stare con loro tutto il giorno e vedere dall’interno come vivevano. All’inizio vivevano segregati nei dormitori. Prima di loro c’erano stati gli zingari ma, dato che il loro aspetto esotico era molto popolare tra i fotografi, mi orientai verso altri soggetti. A Praga scoprii il T-Club e altri locali dove trascorrevo soprattutto le serate bevendo molta vodka. Solo dopo qualche mese ho cominciato a fotografare. Non era come quando si fotografa per strada. Intanto, bisognava essere introdotti da qualcuno e, in un certo senso, crearsi il proprio spazio. I locali gay non erano molto comuni all’epoca. L’omosessualità non era proibita ma poteva essere un problema mostrarla quando si rivestivano ruoli sociali importanti. Mi piaceva molto quell’ambiente perché era colorato.

Nel tuo lavoro qual è l’equilibrio tra consapevolezza e incoscienza?
Certe volte ero nel flusso, ma solo dopo aver visto i negativi capivo chi ero e dove stavo. Però riguardando il mio archivio – ho circa 50 mila negativi ed è un decennio che ci lavoro per preparare libri e progetti espositivi – vedo anche, nonostante l’aspetto intuitivo, una continuità concettuale. Sentivo di dover far parte del momento e la gente intorno a me non mi vedeva come una fotografa, c’era empatia tra noi.

Accanto al tuo approccio visuale c’è sempre la parola scritta di cui c’è testimonianza nei diari…
Ho diari da sempre, a partire dalla mia infanzia (mostra il diario che ha con sé – ndR). Quando a scuola, a 15 anni, ho iniziato a fotografare avendo problemi con gli aspetti tecnici, pensavo che mi sarebbe piaciuto fare la scrittrice. Usavamo apparecchiature obsolete con negativi di vetro che sviluppavamo e stampavamo in camera oscura senza il timer, calcolando approssimativamente tre minuti. I risultati erano terribili. Ma l’aspetto positivo era l’approccio alla sperimentazione che ho continuato sempre ad avere.
Anche scrivere, comunque, è stato uno dei tanti progetti che allora non riuscii a portare a termine. Mi piace, comunque, collegare testo e fotografie. Per lo più non faccio fotografie in posa, preferisco stare in mezzo alla gente, osservarla, ascoltare i rumori e quando ci sono delle situazioni che per qualche motivo non posso fotografare, allora scrivo. Con la scrittura colgo l’essenza, magari sono solo dei versi brevi o qualcosa che nasce dalla fantasia. Il mio approccio, tuttavia, rimane visuale perché sono cresciuta circondata dall’arte. I miei genitori erano pittori. Eravamo poveri ma a casa ho avuto una formazione artistica.

La storica e critica d’arte Anna Fárová è stata un punto di riferimento importante nel tuo percorso artistico…
Non ho frequentata a lungo Anna Fárová, ma l’incontro con lei è stato molto importante. Nel 1977 avendo appena firmato Charta 77 (il Manifesto del 1° gennaio 1977 con cui molti intellettuali chiedevano al governo centrale maggiori libertà civili e politiche – ndR), fu immediatamente rimossa da tutti gli incarichi pubblici. In seguito mi disse che la gente aveva paura anche solo di incontrala per strada. Sapevo che era una persona brillante e, sarò stata incosciente, ma non mi feci problemi e le telefonai. Lei fu subito disponibile e mi aiutò tantissimo. Ero all’inizio e mi diede dei suggerimenti basilari, facendomi focalizzare sugli argomenti che volevo trattare e dandomi la conferma che la direzione del lavoro era giusta.
A quell’epoca partecipai anche a due suoi progetti importanti, nel 1981 la mostra 9&9 nel monastero di Plasy nella Boemia Orientale e 37fotografu na Chmelnici, nel 1989, a Praga. La prima fu memorabile perché un gran numero di fotografi, suoi amici, arrivò per darle supporto: Cartier-Bresson, Martine Franck, Ribaud. Per qualche anno feci parte del gruppo di giovani artisti che ruotava intorno alla Fárová. Frequentavo gli incontri ed esponevo con loro, ma poi ne sono uscita perché trovavo quel gruppo troppo strutturato ed io volevo essere libera.

La fotografia, per te, ha anche una valenza terapeutica?
Sì, è stata spesso terapeutica, soprattutto quando ho realizzato la serie Mum (2010-2012). Mia madre aveva avuto un ictus, metà del corpo era rimasta paralizzata e aveva difficoltà nella comunicazione, perciò io e mia sorella abbiamo deciso di prenderci cura di lei 24 ore su 24. Non è stato facile. Era tutto monotono, ogni giorno si ripetevano gli stessi rituali, la stessa routine, finché ad un certo punto ho pensato che fotografare sarebbe stato d’aiuto e ho comprato un iPhone. Ho realizzato oltre 8mila immagini usando un filtro a colori. Mia madre era stata pittrice e amava il colore. Scattare le foto è stato importante per entrambe, era anche un modo per ritrovare il nostro rapporto.