Betti Marenko foto di S. Cook

«La propria carne è trincea o via di fuga». Il corpo da sempre è oggetto di controllo, assoggettamento, omologazione. Riscoprire il suo potenziale trasformativo, decostruire e capovolgere tabù è ciò che dalla fine degli anni 80 ha fatto la body art (anche) in Italia. A questo mondo Rote Zora aka Elisa Fosforino, 34 anni, ha dedicato una ricerca confluita in Body Act (Agenzia X edizioni) che condensa la variegata realtà della body suspension, piercing e tatuaggi italiana in venti racconti orali di protagoniste e protagonisti che in modi e tempi diversi l’hanno attraversata. «Volevo andare a indagare una comune “esperienza di pelle”, inoltre in Italia e all’estero, a parte la “bibbia” Modern Primitives, non ci sono molti lavori che ricostruiscono la scena attraverso testimonianze dirette». Da Genesis P-Orridge, pioniere della body mod, co-organizzatore del primo evento di sospensione in Italia all’inizio degli anni ’90; a Mr Fab, tra gli occupanti del Virus di Milano, che racconta come il do it yourself dei punk influenzò la modalità auto didatta di eseguire piercing e creare primi gioielli con materiali sperimentali.

FONDAMENTALI i contatti con America e UK, con personaggi come la Gauntlet e Mr Sebastian, tra primi piercer della comunità gay londinese che guardava la scena leather di San Francisco. Il libro incrocia traiettorie di vita, gruppi, luoghi, esperienze in tutt’Italia. Molte e incisive le voci femminili, la cui aderenza alla body art rappresentava qualcosa di assolutamente non conforme. Elvia Iannaccone, cresciuta tra i centri sociali di Milano, tra le prime a fotografare i tattoo per «Tattoo Revue», ricorda come negli anni ’80-’90 le donne tatuatrici non fossero molte, «ma le poche che c’erano incisero profondamente nella scena», vedi Amanda Toy la cui re interpretazione della old school sovvertì lo stile più machista del tattoo. Iannaccone fu ideatrice di Ladies, ladies! Art Show, esibizione il cui scopo era ribaltare la rappresentazione del dominio unicamente maschile nel settore dei tattoo e del progetto editoriale Ladies of Tattooing che promuove il tatuaggio come espressione artistica di donne queer, transgender, di colore.
Ancora Noema Kali, aka Tiger Orchid, una delle pioniere della ricerca estrema del corpo, fachira, studiosa di sociologia visuale e semiotica, co-fondatrice del Teatro della sofferenza ispirato ad Artaud e delle Salem’s Hole. Considera il recupero del corpo come un recupero del matriarcato. Una delle sue muse ispiratrici è l’americana Annie Sprinkle (autrice di Post Porn Manifesto).

Elvia Iannaccone – foto Martina Secondo Russo

«GUY DEBORD spiega come sia stato possibile manipolare la concezione del distacco mente- corpo in cui il corpo deve essere solo funzionale». Da qui l’accettazione dei corpi che rappresentano il modello economico capitalista: conformi, disciplinati, spettacolarizzati. Questo intacca anche le modificazioni corporali fatte non per ricerca personale ma per un senso di appartenenza capace di fare spettacolo. «Tanto che» – dice Noema Kali, le cui modificazioni sono frutto di «guerre personali» – «mi viene quasi voglia di togliermi tutto con il laser». Al contrario, l’artista ha un ruolo sociale, è un educatore, ha una responsabilità: questo era particolarmente evidente negli anni Novanta, nei free party, nelle SusCom. Il piercer o tatuatore è una sorta di sciamano urbano; il corpo è un canale aperto a energie ancestrali di cui nella nostra società non si ha consapevolezza: il rituale è un modo per «tirare fuori ciò che è sepolto dentro».

ANTARES MISANDRIA, co-fondatrice, assieme a Noema e Soraya, delle Salem’s Hole che si esibirono al Body Performance Art Festival al Teatro dell’Orologio di Roma, spiega che uno dei motivi per cui ha smesso di eseguire performance è che nella società attuale le pratiche corporali hanno perso senso: «Mi cucivo la bocca per simboleggiare come la donna non potesse esprimersi, chi vedeva rimaneva turbato, c’era un coinvolgimento forte. Oggi si ricerca solo il piacere, per me è una deriva degradante: i nostri spettacoli rappresentavano realtà scomode. Se chi mi guarda ci vede piacere non ho raggiunto il mio intento, io non sono un giocattolo». Su questa deriva contemporanea convergono gran parte delle interviste. Angelo Nardò, body piercer dal 1995, praticante di sospensioni corporali, spiega come l’avvento di internet e l’attenzione dei media abbiano portato a un’inevitabile accelerazione: «Quello che si cerca non è l’esperienza personale, ma il suo consumo. Non ci trovo empatia, ma spettacolarizzazione». Resta il potenziale rivoluzionario di pratiche di controcultura, tra rito, performance, sperimentazione, agite sul confine/pelle, sui limiti sociali, culturali, in between tra l’io e l’altro.