Bobby Rush, una vita blues
Musica L'artista americano a 83 anni è sempre in tour, incide dischi ed è protagonista di un documentario. «Sono cambiate molte cose nel nostro paese, altre sono rimaste uguali come al Sud»
Musica L'artista americano a 83 anni è sempre in tour, incide dischi ed è protagonista di un documentario. «Sono cambiate molte cose nel nostro paese, altre sono rimaste uguali come al Sud»
Si intitola I am the Blues il documentario del regista canadese Daniel Cross – in questi giorni nelle sale americane – che racconta esistenze e parabole artistiche di blueswoman e bluesmen della vecchia generazione, raggiunti dal filmmaker lungo i territori del Deep South. Tra Louisiana e Mississippi, Cross ha incontrato personaggi come Little Freddie King, Jimmy «Duck» Holmes, R.L. Boyce, Henry Gray, Barbara Lynn e tra gli altri, Bobby Rush. Proprio l’artista afromericano, il più noto del lotto, è ritratto nel manifesto della pellicola. Circostanza non casuale questa, considerato che se gli altri protagonisti sono oramai, seppur dignitosamente, al termine della propria carriera, stessa cosa non può dirsi per Mr. Rush. Il quale è forse agli apici della popolarità come mai accaduto in passato. Il punto di svolta è stato lo scorso 12 febbraio, quando il cantante e armonicista si è aggiudicato il Grammy nella categoria Traditional Blues Album, grazie all’ultimo suo album Porcupine Meat (Rounder Records). «È stato davvero importante non solo per me, ma anche per le persone che mi circondano dandomi supporto, facendo in modo che io possa continuare ad avere sempre il blues dentro di me. Che questo accada, che la gente lo riconosca e che questo valga anche per gli altri musicisti che hanno avuto le nominations e con cui ero in competizione, ha un valore. Il Grammy è anche per chi mi ha preceduto. Perché prima che arrivassi io, ci sono stati altri. Questo, è anche per loro. L’importante, alla fine, è mantenere in vita il Blues».
Parola di Bobby Rush, che abbiamo incontrato in Svizzera in occasione delle Bellinzona Blues Sessions. Lo sguardo intenso e profondo, la voce chiara e ferma del bluesman, raccontano con chiarezza, il valore del successo ottenuto. Che va ben oltre il semplice feticcio che gli è stato consegnato, allargando le prospettive su ambiti di natura sociale e culturale. Nel far questo, coinvolge come un premuroso genitore, anche gli altri candidati al premio, ovvero Lurrie Bell, Joe Bonamassa, Luther Dickinson e Vasti Jackson. D’altronde Emmett Ellis Jr, questo il suo vero nome, non è mai stato né precursore né un innovatore. Non sono queste le capacità che vanno ascritte al profilo artistico di Rush, ma altre. Come saper adeguarsi alle nuove tendenze nel modo migliore possibile, grazie anche ad un indiscutibile carisma, a capacità tecniche incontestabili e ad una fedeltà artistica a se stesso reale e sincera.
Con la consapevolezza di un artista navigato e maturo, Rush sembra parlare a nome dell’intera comunità musicale del blues statunitense. Sa di essere al momento il numero uno ma è ben lungi dall’affermarlo e lascia che siano gli altri a farlo. D’altronde a ottantaquattro anni non è certo di questo che ha bisogno. Con più di mezzo secolo alle spalle di carriera, decine di dischi e migliaia di concerti in archivio e molti altri in programma, l’esigenza del musicista che arriva da Homer, piccolo sobborgo della Lousiana rurale, è altro. Vale a dire, continuare a suonare la propria musica: «Questo è da sempre il mio lavoro, ho deciso molti anni fa che lo avrei fatto per tutta la vita. Ogni aspetto della giornata riflette questo. Sai, spesso mi chiedono come faccia ad essere ancora in forma fisicamente. Io rispondo che bisogna avere rispetto per se stessi e il proprio corpo. Faccio molta attenzione a quello che mangio e poi ho smesso di bere alcolici tanto tempo fa, nel 1957! Salire sul palco è la mia vita e devo farlo nel modo migliore, anche per una questione di rispetto nel confronto del pubblico che vuole da me il massimo». Vero e fa fede l’esibizione nella città del Canton Ticino, dove per novanta minuti ha ammaliato il pubblico da autentico mattatore. «Sul palco sono tre persone in una: una volta potresti sentirmi cantare spiritual, la seconda potresti sentirmi suonare blues con la mia chitarra, la terza assieme alla mia band».
Rush è capace come pochi di toccare le diverse inclinazioni dei suoni african american e per quanti volessero avere un compendio valido senza perdersi nella sua monumentale discografia, la migliore soluzione è quella del box Chicken Heads: A 50 Year History of Bobby Rush, uscito nel 2016. Un’antologia dove è rappresentata ogni sfumatura stilistica, incluse anche le sue performance degne del miglior chitlin’ circuit, ovvero quel sottobosco di esibizioni popolari nel sud degli Stati uniti destinate almeno originariamente al solo pubblico afroamerican: «Il chitlin’ circuit è stato creato perché come musicisti neri venivamo pagati poco, anche 1 dollaro al giorno. Così la soluzione fu suonare direttamente per la nostra gente e nelle nostre case, dove si cucinava il chitterlings (una pietanza a base di interiora di maiale stufate o in zuppa, ndr): questo è quello che mangiavamo e così venivamo pagati. Ad un certo punto quando si è iniziato a parlare di chitlin’ circuit li si accostava erroneamente ai Juke Joint, ma non è così. Non sono la stessa cosa, nei juke joint si suona il blues». Ed è proprio all’interno di questo circuito musicale che Rush ha costruito la sua figura leggendaria, dove proponendo una miscela di soul. blues e funk, ha imposto il suo nome. Assieme ad una band composta da circa dieci elementi a cui si aggiungono da sempre due ballerine con le quali Bobby duetta, si dà vita a esibizioni in cui il ballo è l’elemento unificante.
«Danzare è molto importante… Io suono con un ritmo e se tu non lo possiedi, tu balli contro il ritmo..dare movimento al corpo significa avere il giusto ritmo. Noi neri il groove lo abbiamo dentro, da sempre. Ma ora lo hanno anche i bianchi da quando hanno iniziato ad interessarsi al blues, suonandolo. Posso confermartelo perché oggi una buona parte del pubblico che mi segue è composto anche da bianchi e vedo come le cose sono cambiate negli anni. E quando dal palco si crea la giusta atmosfera quando la band è on fire, anche se fuori fa freddo, l’atmosfera si riscalda e diventa hot (bollente) come diciamo dalle nostre parti».
Rush spiega come riesce a creare questa empatia con il pubblico, mima con il corpo ogni parola, imponendo alla stessa conversazione una ritmicità spontanea. Che continua in un flusso ininterrotto: «Guarda il mio ultimo lavoro Porcupine Meat, sono orgoglioso di aver trovato il modo migliore per mettere dentro il disco dei ritmi diversi, questo perché le canzoni hanno un carattere personale. Se poi devo parlarti di una in particolare, voglio raccontarti della title-track, un blues. È una storia che parla di quando sei innamorato di una donna ed è una storia tormentata. Sai che dovresti troncarla, ma non puoi e non vuoi. Cerchi la chiave giusta…è troppo intensa per lasciartela alle spalle, non sai come prendere la decisione giusta». Dialogare e riuscire a comunicare con tutti, incluse le giovani generazioni, è il cruccio di Rush: «Sono cambiate molte cose negli anni nel nostro paese, altre sono rimaste le stesse, soprattutto al Sud. Ma quello che importa e che deve rimanere integro è il cuore. È la nostra forza ed è molto importante: a prescindere da ciò che avrai fatto o ciò che non avresti dovuto fare, puoi cambiare quanto vuoi, ma se il tuo cuore non è pulito, non c’è strada. Per me conta essere di esempio per i più giovani: oggi a 83 anni voglio dire a tutti i giovani che se Bobby Rush ce l’ha fatta, anche voi lavorando sodo, ce la farete».
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