Ancora oggi e domani alla Pergola (coproduttore assieme al parigino Theatre de la ville, e agli stabili di Udine e Bolzano), Pessoa – Since I’ve been, l’ultimo spettacolo di Bob Wilson, che porta in scena una sorta di confronto visionario tra l’artista del Texas, tra i padri riconosciuti del teatro contemporaneo, e la personalità assai complessa del portoghese Fernando Pessoa, grande ed enigmatico intellettuale del primo ’900, nume tutelare della cultura lusitana contemporanea, la cui effigie in bronzo, a grandezza naturale, non a caso campeggia seduto in un caffè nel centro della capitale portoghese. Il regista americano ovviamente usa i suoi ben noti linguaggi, ermetici quanto seducenti, ritmando i corpi dei suoi interpreti e dei suoni in flash abbaglianti. In quei lampi fulminanti gli attori passano da danzatori a mimi, ed è la luce, anzi l’avveniristico gioco delle luci, a dare respiro narrativo a quel susseguirsi convulso di personaggi.

LA MOLTIPLICAZIONE di questi, la sfumata allusività che ogni contrazione dei corpi comporta, sembrano voler mimare le molte vite che Pessoa era solito crearsi: identità sempre diverse eppure coerenti, che non ambivano tanto alla ricerca di una umana «perfezione», quanto piuttosto a sgretolare ogni riconoscibile sicurezza del sé. Ad ogni cambio di luci, veloci spesso come uno scatto di flash, i personaggi parlano o emettono suoni, veloci quanto la stroboscopia che fulmina tra buio e lampo quelle esistenze.

COME LE MOLTE vite che lo scrittore proiettava di sé nelle creature (ma anche negli pseudonimi che continuamente moltiplicava) nelle quali incessantemente rimodellava la propria umanità. Le frasi pronunciate dai personaggi suonano di circostanza, ma volutamente servono ad annullare ogni riconoscibile identità. È un balletto, se si vuole, ma molto coerente, visivamente ottenuto col gioco delle luci, che immortalano corpi e movimenti nel più classico stile del tardo Wilson: la luce, anche quella accecante dei riflettori (del cui uso l’artista è da sempre stato maestro), non basta a identificare, né persone né cose. Il «balletto» della vita declina questa volta le mille vite cangianti di Pessoa in grammatica e sintassi del linguaggio di Wilson. Che non a caso spiazza lo spettatore con l’uso di lingue diverse, dal portoghese al francese all’inglese all’italiano, che rende arduo (per chi proprio volesse) dare un senso al discorso. Pessoa, la sua vita d’artista (e quella di tutti noi) non concede requie, le immagini trasformano in ogni momento situazioni e gli stessi personaggi.