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Bob Dylan, un dolore perfetto

Bob Dylan, un dolore perfettoBob Dylan,2011 – foto Ansa

Eventi Tre date alla Royal Albert Hall per il grande artista americano

Pubblicato circa 6 ore faEdizione del 14 novembre 2024

David avrà settanta anni e qualcosa in più. Sta seduto accanto a me, qui alla Royal Albert Hall, per la prima delle tre serate di Bob Dylan. Conosco il suo nome, perché la sua assistente me lo ha riferito “lui è David, per qualsiasi cosa, può chiamare me”. David ha il Parkinson e anche una demenza senile, sta seduto con le mani tremanti che tiene però strette a mo’ di pugni, e anche le gambe stanno lì, e tutto si muove. Non dice una parola David, sembra non capire niente, finché alle 20, quando le luci si spengono, arriva Bob Dylan con la sua band. E allora David sembra rinascere, ha un balzo sulla sedia, sorride dagli occhi, dalle mani, sembra essersi dimenticato di tutto il resto. Bob Dylan sale sul palco con la sua band, tutti rigorosamente vestiti di nero, Dylan, però a differenza degli altri, indossa una giacca nera sì ma che brilla, tantissimo, tanto che sembrano piccoli diamanti. Noi siamo vicini al palco, talmente vicini che Bob Dylan si vede, bene, in faccia anche. E lo si vede anche fisicamente, bene. Bob Dylan sta bene, e non sembra nemmeno nei suoi ottanta e oltre. Da principio dà le spalle al pubblico, non lo guarda nemmeno, sta seduto di spalle al pianoforte. In realtà è molto probabile che non solo lo faccia per mettersi a suo agio ma anche per dare coordinazione ai suoi musicisti.

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BOB DYLAN conosce il suo pubblico e lo riconosce, sa che essere lì vuol dire aspettarsi tutto il contrario di quello che si può sperare di avere. Dylan è tutto e il contrario di tutto, lo dimostrerà anche stasera, e credo profondamente che qualcuno lassù gli abbia affidato le chiavi della musica e della parola, ha una perfezione divina, e non c’entra essere un fan o meno. Lui è un dolore profondissimo, la sua musica è un dolore profondissimo, qualcosa di talmente struggente che ti strappa la pelle di dosso, e tu lo sapevi benissimo che prima o poi sarebbe successo. Sei preparato ma allo stesso tempo non te lo aspettavi. Ecco, la sua musica è la preparazione a qualcosa a cui era preparato ma che non ti aspettavi. Così dal suo pianoforte parte con le note di All Along the Watchtower, supportato dai suoi musicisti, che non guardano mai i loro strumenti ma sempre gli occhi e le mani di Dylan. Non è più vero che canta gracchiando (semmai questa fosse stata la vostra percezione negli anni passati) e che non si capisce quello dice. Dylan è cambiato in questo, ha una voce molto più potente quasi, più chiara, si capisce quello che dice o, meglio, è evidente che ha dedicato del tempo alla sua voce e che sa che la parola, la sua, è fondamentale. La musica invece, gli arrangiamenti, hanno subito un cambio notevole, in questo Tour. Talmente strazianti le chitarre, il basso, la batteria, quel pianoforte suonato come fosse l’ultima possibilità della vita, che ti infligge dolore dall’inizio alla fine.

Ti fa del male, quando si alza in piedi, prende il microfono e quasi si inginocchia con la gamba destra, mentre passa When I Paint My Masterpiece.

E’ STRUGGENTE quando canta It Ain’t me, Babe. E non ha bisogno di dire nulla al pubblico, non ha bisogno nemmeno di sorridere, la sua musica arriva in maniera talmente violenta, violento sì, il dolore è violento, è impetuosa, da scardinare qualsiasi forma di relazione. Ti fa del male, quando si alza in piedi, prende il microfono e quasi si inginocchia con la gamba destra, mentre passa When I Paint My Masterpiece. Ti fa del male e ti incenerisce il cuore quando prende tra le mani quell’armonica, quando ci butta dentro 83 anni di respiri lunghissimi e apnee, quando sta in piedi e suona al piano, quando non si mette la mano sul fianco per posa, ma perché tiene quel filo lungo del microfono, che non è tic, ma per paura di inciampare, e lo tira sempre, lo raccoglie, quasi una lotta continua. Ti incenerisce il cuore quando parte Desolation Row, Mother of Muses, Goodbye Jimmy Reed, My Own Version of you. C’è la vita in Dylan, ma c’è la morte, fortissima, che non è solo quella fisica, il destino di ognuno di noi, lì nelle mani e nella voce di quel signore che si tocca i riccioli. Si sente un dolore che sembra essere infinito, che sembra funzionare come l’elastico di una fionda.

ALLA FINE, David si alza e bisbiglia “Damn Bob Dylan, I love you”. Eh, si dannato Bob Dylan, che durante l’esecuzione di It’s all over now Baby Blue ci ha costretto alle lacrime, e senza un reale motivo. Non c’è dubbio sul compito “profetico” di Bob Dylan, ancora di più in questo Rough and Rowdy Ways Tour: conosce il dolore, qualcuno glielo ha consegnato, la sua musica lo ha solo reso perfetto.

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