Bob Dylan, le scelte di un cantastorie. Da Elvis Presley a Modugno
In pagina/Come i sessantasei brani commentati nel libro «Filosofia della canzone moderna» sono stati il pretesto per un viaggio interiore Il volume è anche un modo per svelarsi, autocelebrarsi, spesso satiricamente, riflettersi in un’America soppesata tra amore e odio. In pista anche i Clash
In pagina/Come i sessantasei brani commentati nel libro «Filosofia della canzone moderna» sono stati il pretesto per un viaggio interiore Il volume è anche un modo per svelarsi, autocelebrarsi, spesso satiricamente, riflettersi in un’America soppesata tra amore e odio. In pista anche i Clash
Filosofia della canzone moderna, idem in inglese, con l’aggiunta non casuale dell’articolo «The», quindi The Philosophy Of Modern Song: l’ultimo libro di Bob Dylan, uscito a metà dell’anno scorso e brillantemente tradotto – dall’esperto Alessandro Carrera, a cui si deve l’esemplare La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America – nel novembre 2022 per le edizioni Feltrinelli, conferma anzitutto il valore di uno «scrittore». E a maggior ragione, a distanza di quasi un ventennio dal saggio-confessione Chronicle Vol. 1 (2004) ribadisce la lungimiranza dell’Accademia svedese nell’assegnargli il Nobel 2016 per la Letteratura: Robert Zimmerman, il menestrello di Duluth (Minnesota), 82 anni il 24 maggio scorso, non è solo un fondamentale musicista folk, rock, folk rock, come tramandano le storie del pop; è un poeta nei testi delle proprie canzoni; è un interprete sensibile dell’immenso songbook statunitense; è un prosatore addirittura sperimentale negli esordi semi-autobiografici con Tarantula (1971); è un visionario in grado di esprimersi, oltre cinema e video, attraverso un linguaggio figurativo come la pittura, dove la dimensione narrativa è predominante, sia pur con inflessioni onirico-surreali.
MOTTO
Bob Dylan è ora anche un «musicologo» nello scegliere e commentare 66 canzoni altrui in rapporto alla propria vita: ma, al contrario della presunta scientificità o del politically correct di altrui opere attorno alle grandi song, Filosofia della canzone moderna resta un modo per svelarsi, per autocelebrarsi spesso satiricamente, per riflettersi nell’America da lui soppesata tra amore e odio. Il lavoro compiuto in questo volume – dove i singoli brevi capitoli vengono, da lui, integrati da 150 immagini fra foto, quadri, disegni, manifesti, copertine di dischi – è assimilabile all’idea della canzone che Marcel Proust più volte ribadisce nel mastodontico Alla ricerca del tempo perduto: «Le canzoni, anche quelle brutte, servono a conservare la memoria del passato, più della musica colta, per quanto sia bella». Una frase divenuta presto un aforisma, ma che il romanziere parigino non tarda a spiegare: «Siccome si suona e si canta molto più appassionatamente della buona (musica classica), a poco a poco essa si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini. Per questo vi sia rispettabile. Il suo posto, nullo nella storia dell’arte, è immenso nella storia sentimentale della società (…). Il popolo, la borghesia, l’esercito, l’aristocrazia, come hanno gli stessi portalettere per recare il lutto o la felicità, hanno gli stessi invisibili messaggeri d’amore, gli stessi amati confidenti (…)». Insomma il motto «Non disprezzate la musica popolare» diventa quasi il vessillo ideologico di un anziano «intellettuale» nutrito da giovane di Rimbaud e Dylan Thomas, da adulto di Ginsberg, Kerouac, Ferlinghetti, che segue istintivamente il flusso di coscienza, le memorie del passato e del presente, le istanze di ascolti soprattutto radiofonici (o di 78 e 45 giri) intrisi di sentimenti poliedrici.
PICCOLI DETTAGLI
Ovviamente, nonostante il titolo perentorio, sull’argomento non c’è da aspettarsi, con Dylan, un’analisi sociologica alla Walter Benjamin o alla Theodor W. Adorno; bastano però solo due piccoli dettagli a capire come l’approccio dylaniano, oltre proustiano, risulti anche tipicamente yankee nel senso più ruspante, genuino, fideistico del termine; il primo dettaglio riguarda la copertina del libro che, da una foto di Bruce Perry, presenta tre divi rock and roll – Little Richard, Alis Lesley, Eddie Cochran nella tournée australiana – quasi a ribadire la centralità di questa musica nel contesto del XX secolo; il secondo dettaglio – uso dell’articolo determinativo the (la) – sembra quasi sostenere l’unica visione del mondo possibile, per una forma espressiva contesa dallo show business all’interno del comunicare mediatico. Dylan però, almeno a una prima lettura, sembra procedere in maniera anarchica, casuale o disordinata nella scelta dei 66 brani disseminati qua e là, senza nemmeno anteporre una Intro (o premessa scritta), e senza nemmeno collocarli in ordine di tempo, luogo, spazio, linguaggio o stile. Nemmeno le singole analisi parrebbero sostenere una logica unica o coerente, giacché Dylan si lancia di volta in volta in disamine sociologizzanti, in letture autoironiche, in giudizi incisivi, in argomentazioni via via fantasiose, sprezzanti, autorevoli, caustiche, premonitrici; ma forse è questa la «vera» filosofia: non tanto lo studio più o meno sistematico di questioni generali (esistenza, senso della vita, ragione, conoscenza, eccetera), quanto piuttosto, seguendo l’antico etimo greco, l’amore per la sapienza e la ricerca per «scoprire» il mondo, gli altri e se stesso, anche dentro o vicino a una canzone moderna.
Il quid della filosofia dylaniana viene rivelato, però, soltanto ricomponendo un iter cronologico di una storia della canzone moderna fin troppo destrutturata e di proposito frammentaria. L’arco temporale va dal 1923 al 2004 per ciò che attiene ai materiali fonografici, ma l’ampiezza è solo apparente, giacché Dylan si sofferma sui decenni centrali del secondo Novecento: dal 1950 al 1970 sono ben 55 le canzoni contro le 4 precedenti e le 7 successive. Ma nel «trentennio magico» per la canzone moderna, le proporzioni vengono ribaltate in confronto alle preferenze di giornalisti e studiosi: più di metà brani (28) sono degli anni Cinquanta, mentre sono 13 e 14 rispettivamente dei Sixties e dei Seventies. A guardare le 66 opzioni, una a una, si capisce dunque che non si tratta di un compendio storico-critico-estetico, bensì di un viaggio interiore, alla stregua di un resoconto quasi diaristico, senza vergognarsi di omettere i classici «tipici» da Top Ten o «Best 100»: sbagliano infatti i recensori a rimproverare a Dylan l’esclusione di canzoni illustri per solisti o gruppi altrettanto blasonati. Occorre invece partire dalla concretezza degli «amori a prima vista», dalla prima Detroit City (Bobby Bare) all’ultima Where or When (Dion) del libro, canzoni che magari non dicono nulla al lettore/ascoltatore italiano, il quale potrebbe trovare nazionalistici i gusti rivolti agli unici otto cantanti/cantautori a ottenere ben due presenze ciascuno: da un lato i padri fondatori della protest song (Pete Seeger) e del country and western (Hank Williams) con i suoi maggiori successivi epigoni (Willie Nelson e Waylon Jennings); dall’altro i re del rock and roll bianco (Elvis Presley) e nero (Little Richard), nonché una meteora del pop swingato (Bobby Darin).
NON SOLO USA
La linea «campagnola», oltre figure minori, sembra filosofeggiare anche nel country rock declinato sia individualmente (Jackson Browne e Warren Zevon) sia nei gruppi (Allman Brothers, Eagles, Grateful Dead); lo stesso vale anche per la classic song nordamericana via via incarnata dai crooner maschili (Perry Como, Bing Crosby, Vic Damone, Dean Martin, Johnny Ray, Frank Sinatra) e femminili (Judy Garland e Rosemary Clooney), i cui vasti repertori, negli ultimi anni, sono ripresi dallo stesso Dylan in concerto, rivoluzionandone proprio l’ossatura e il carisma da standard o evergreen.
In lui, poi, è altresì presente l’immaginario collettivo e l’educazione sentimentale della black music, in quattordici canzoni sotto forma di blues (Alvin Youngblood Hart), di gruppi doo-wop (Drifters) e funk (Temptations), persino di jazz vocale (Nina Simone e il bianco Mose Allison), mentre spuntano anche scelte underground newyorkesi (The Fugs) e new wave/punk britanniche (Elvis Costello, The Clash), non senza includere alla fine due nativi fra loro agli antipodi in quanto a poetiche (Cher e John Trudell).
Sono invece rare, una quindicina, le canzoni famose internazionalmente, che, per così dire, normalizzano il gusto di Dylan rispetto all’eccentrico, all’insolito, al localismo, benché facenti parte di un’unica contemporanea mitologia a stelle-e-strisce (in tutto solo 4 le canzoni straniere, 3 inglesi, 1 italiana). Collocate storicamente, le canzoni moderne arcinote al pubblico europeo iniziano anzitutto con il blues Key to the Highway di Little Walter (oggi però soppiantato, in notorietà, dalla cover di Eric Clapton), che apre metaforicamente la strada ai due scatenati rock Tutti frutti e Long Tall Sally di Little Richard, le cui ascendenze gospel paiono bilanciate dalle fonti rockabilly di Blue Suede Shoes di Carl Perkins o addirittura hollywoodiane nella tarda Viva Las Vegas di Elvis. Il debito black verso lo spiritual, tra r&b e soul, torna con la vivace I Got a Woman di Ray Charles e la romantica My Prayer dei Platters, mentre a ribadire la fortuna della classic song ci pensano Blue Moon con Dean Martin e Strangers in the Night per Sinatra. A parte il tocco latin rock con Black Magic Woman dei Santana, l’urlo generazionale, per Dylan, è solo inglese da My Generation (The Who) a London Calling (The Clash). Curioso infine quando a omaggiare la canzone moderna francese e tedesca risultino le versioni tradotte con Beyond the Sea (La mer) di Charles Trenet e Mack the Knife (Mackie Messer) di Kurt Weill, leggermente jazzate, a opera del citato Darin. L’unica straniera al 100% è Volare (titolo straniero, da noi Nel blu dipinto di blu) di Domenico Modugno.
«VOLARE»
«Il sound del disco è sontuoso, pieno di elementi disparati, ma mai affastellati; un batterista che alterna con destrezza spazzole swinganti con l’impatto aggiuntivo delle bacchette, archi danzanti in pizzicato, un organo con un’eco da era spaziale. La parte vocale è giocata tutta sulla dinamica, un attimo di morbidi, intimi sussurri e il momento dopo un’esaltazione gioiosa, un interludio recitato seguito da una malinconia che non ha bisogno di traduzione»: è Bob Dylan che racconta Volare a pagina 197 del suo Filosofia della musica moderna. Il pezzo, come si sa, è l’unico italiano a restare a lungo al primo posto nelle classifiche americane, nel 1958, proprio quando il diciassettenne Robert Zimmerman decide di scappare di casa, di assumere il nome di un celebre poeta scozzese, magari non immaginandosi di riuscire a diventare nel 2023 uno dei migliori esegeti delle song contemporanee, attraverso intuizioni straordinarie come il paragone tra Modugno e la psichedelia: «Magari questa è stata una delle prime canzoni allucinogene, di almeno dieci anni in anticipo su White Rabbit dei Jefferson Airplane (…) Volare significa: ‘Voliamo via nel cielo infinito’. Ovviamente il cielo senza fine. Il mondo intero può scomparire, ma io sono perso nei miei pensieri».
Dylan ignora che il testo è probabilmente ispirato da un sogno vero, non senza qualche riferimento al quadro Le coq rouge di Marc Chagall come più tardi rivelerà l’autore Franco Migliacci, il quale, talvolta contraddicendosi, racconterà del «blu dipinto di blu» nato invece da un’idea di Domenico Modugno, l’altro autore, passeggiando per Ponte Milvio a Roma o guardando dalla finestra di casa sua a Piazzale Cardinal Consalvi. Dylan non parla la lingua italiana, ma, sentendo questa canzone più moderna che mai, ne apprezza il senso liberatorio dovuto alla musicalità fonetica: è «(…) l’italiano con le sue vocali come caramelle mou e il suo melodioso vocabolario polisillabico». Si tratta insomma di un brano dell’Utopia, giacché, come avverte a inizio capitolo riguarda «(…) una canzone che si avvicina, sfreccia, continua per la sua strada, procede a piena velocità, si schianta nel sole, rimbalza sulle stelle, esala in una nuvola di fumo come un sogno impossibile e va a esplodere diritta nel paese delle Meraviglie».
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