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Bloomsbury hungry lions, ritratti dell’intreccio tra arte e vita

Bloomsbury hungry lions, ritratti dell’intreccio tra arte e vitaVanessa Bell, "Roger Fry", 1912, Londra, National Portrait Gallery

A Roma, Palazzo Altemps, "Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing Life", a cura di Nadia Fusini e Luca Scarlini L’epopea scapestrata del gruppo intorno ai fratelli Stephen in una mostra di ritratti in dialogo con i libri e con le arti applicate

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 gennaio 2023
Stephen Tomlin, “Busto di Virginia Woolf”, 1953 (da una scultura del 1931), Londra, National Portrait Gallery

Tutto cominciò con un trasloco. Quattro fratelli, rimasti orfani prima di madre e poi di padre, nel 1904 si spostarono dall’elegante casa di famiglia di Kensington al numero 46 di Gordon Square, nell’allora malfamato quartiere londinese di Bloomsbury.
Forse quella casa così grande e lussuosa, così upper class, alta e buia, e «così affollata di scene di vita familiare, grottesche, comiche, tragiche», non serviva più; forse ormai era difficile da mantenere e da mandare avanti. Ma probabilmente c’era anche qualcos’altro alla base di quella decisione: qualcosa che i giovani fratelli ancora neanche immaginavano.
Loro erano Vanessa, Thoby, Virginia e Adrian Stephen, figli dell’illustre Sir Leslie Stephen, critico letterario e filosofo, fratello del giurista e politologo James Fitzjames Stephen. Esponente di una delle più note famiglie dell’aristocrazia colta inglese, Sir Leslie era stato al centro della vita sociale e culturale vittoriana, ma la fama dei suoi figli, di Virginia e di Vanessa in particolare, fu di gran lunga maggiore della sua.
Vanessa aveva appena venticinque anni, era la più grande dei quattro, e fu lei a prendere la decisione di cambiare casa; una scelta che si rivelò immediatamente quantomeno impopolare fra la cerchia intellettuale e culturale cui la sua famiglia apparteneva: come era possibile, si chiesero tutti, che quei ragazzi di buona famiglia potessero trasferirsi in un luogo così poco à la page? E Vanessa e Virginia, in particolare, come potevano accettare di buon grado la convivenza con uomini e donne non solo parenti fra loro? Perché è anche questo che si sussurrava fra i benpensanti vittoriani. Addirittura il grandissimo Henry James trovò deplorevole tale situazione e fu costretto a fare visita a Gordon Square, controvoglia, solo in occasione del matrimonio di Vanessa, portandole in dono una scatola d’argento per custodire forcine da capelli.
Forse lo scrittore nato americano e morto inglese e la sua cerchia erano davvero un po’ troppo intransigenti, ma in effetti Bloomsbury agli inizi del Novecento non era né particolarmente elegante, né ricercato, anzi, decisamente delabré.
Ma le cose stavano per cambiare e, vuoi perché lì vicino c’era la stazione di King’s Cross da cui partivano e tuttora partono i treni per Cambridge per raggiungere il Trinity College, dove Adrian e Thoby Stephen studiavano; o vuoi perché, ancora più vicina, c’era la British Library e anche il British Museum e la Slade School of Fine Art, insomma, per un motivo o per un altro, i quattro figli di Sir Leslie Stephen, in un certo senso, trovarono a Bloomsbury il centro del mondo. Per chi veniva da Hyde Park Gate, Bloomsbury era senz’altro il posto più eccitante e più romantico di qualsiasi altro. Tutto era esaltante e nuovo per quei giovani in fuga da un ambiente e da una cultura, quella vittoriana, che stava tramontando.
Di Bloomsbury e degli intellettuali modernisti che si riunirono intorno alle dimore dei fratelli Stephen parla Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing Life – a Palazzo Altemps fino al 12 febbraio, catalogo-libro Electa –, curata da Nadia Fusini e Luca Scarlini. La mostra è raffinata e offre anche l’occasione per visitare, o meglio per visitare ancora una volta, un bellissimo museo che in questi ultimi anni si sta innovando ulteriormente grazie all’ottima guida del suo direttore, Stéphane Verger.
Bloomsbury e la sua enclave di intellettuali scapestrati e anticonformisti non fu solo pettegolezzo, storie di amori leciti e, il più delle volte, illeciti, di omosessualità e uso di droghe, di feste e sceneggiate, perché fra le mura di quelle case, dietro le ampie finestre che davano su piazze scarsamente illuminate e a dir poco mal frequentate, si riunivano gli intellettuali più brillanti di quella giovane generazione. Oltre ovviamente a Virginia Woolf e Vanessa Bell, le padrone di casa, i più assidui erano un giovane critico d’arte, Roger Fry, che fece conoscere al mondo anglosassone il post-impressionismo, ma anche Giles Lytton Strachey, l’economista Maynard Keynes, Clive Bell, Duncan Grant, Vita Sackville-West, Katherine Mansfield, Thomas Stearns Eliot, Edward Morgan Forster e tanti altri fra i più affascinanti e colti interpreti di quegli anni pieni di speranze e di tragedie.
C’era la guerra che incombeva, ma questa è un’altra storia, non troppo lontana però, se basta leggere Mrs. Dalloway, il capolavoro di Virginia Woolf, per incrociarne il dramma anche fra le strade di Londra: mentre i ragazzi di Bloomsbury discutevano infatti di arte e nuove teorie estetiche, decisamente troppo assorti da amori e turbamenti personali, un’intera generazione di giovani inglesi moriva nel fango delle trincee francesi.
La mostra, nata in collaborazione con la National Portrait Gallery, temporaneamente chiusa, presenta comunque alcuni dipinti davvero notevoli. Ma non solo: in un’esibizione dedicata a un gruppo di scrittori e intellettuali non potevano certo mancare i libri, ai quali è riservata un’intera sala di preziose prime edizioni scelte da Luca Scarlini per l’occasione, e anche quelli della Hogarth Press, la casa editrice fondata nel 1917 da Leonard e Virginia Woolf. Nata inizialmente per aiutare la scrittrice a dimenticare le sue continue e dolorose crisi di nervi, Hogarth Press, che si trasformò in breve in un raffinato punto di riferimento per l’editoria inglese, aveva come obiettivo quello di proporre i libri dei migliori autori ai prezzi più accessibili per chiunque, intrecciando così il suo percorso con quello degli Omega Workshops, il laboratorio sperimentale di design per interni fondato da Fry nel 1913, a cui sono dedicate le ultime sale dell’esposizione.
Fra i dipinti risalta il bellissimo ritratto di Edward Carpenter, scrittore e poeta, oltre che cofondatore della Fabian Society e attivista di uno dei primi movimenti omosessuali di Inghilterra, una delle figure ispiratrici del romanzo Maurice di E. M. Forster, che Roger Fry ritrae in piedi, al centro di una stanza, forse lo studio del pittore, con lo sguardo perso nel vuoto e alle spalle uno specchio che ne riflette la figura mentre sembra incerto se voltarsi definitivamente o restare ancora fermo in posa. Nella stessa sala, poco distante, ecco il ritratto di Aldous Huxley di Vanessa Bell, e quello di Bertrand Russel, ancora di Fry. Appena di fronte si incrocia lo sguardo malinconico di George Leigh Mallory, il giovane alpinista il cui corpo venne ritrovato nel 1999, oltre settant’anni dopo la sua morte avvenuta mentre scalava una parete dell’Everest vestito, come quell’epoca prevedeva, soltanto con una giacca di tweed, dipinto da Simon Bussy, pittore francese che fu in contatto con il gruppo di Bloomsbury grazie al matrimonio con Dorothy Strackey.
E ancora il ritratto di Forster di Dora Carrington e quello di Lydia Lopokova di Duncan Grant, il ritratto di Clive Bell di Roger Fry, che anche si autoritrae, e ancora il critico d’arte dipinto questa volta da Vanessa Bell, ma anche un seducente autoritratto con turbante di Duncan Grant, tutti provenienti dalla National Portrait Gallery.
La maggior parte dei dipinti in mostra sono infatti i ritratti che i vari autori si scambiarono uno con l’altro e che, insieme alla lettura dei saggi del catalogo (molto belli quelli di Nadia Fusini e di Luca Scarlini), ci aiutano a rivivere ciò che sembra più affascinante afferrare, quello che è il vero cuore della mostra: l’incrocio fra vita e arte, quell’intreccio indissolubile e drammatico che ha caratterizzato il gruppo dei cosiddetti hungry lions, come li definì Henry James.
Ma di che cosa erano affamati questi giovani artisti e intellettuali così meravigliosamente e un po’ snobisticamente irregolari? Erano affamati di vita, tanto affamati da esserne però il più delle volte divorati loro stessi, e la fine di Virginia, morta annegata in un fiume dopo essersi riempita le tasche di sassi, sembra essere una sorta di tragico epilogo collettivo.

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