Nei tentativi di incipit di Isaac Davis, alter ego cinematografico del Woody Allen di Manhattan, la New York di fine anni Settanta è «una metafora della decadenza della cultura contemporanea», una «società desensibilizzata da droga, musica a tutto volume, televisione, crimine, immondizia»: l’elegante bianco e nero della sequenza e la gershwiniana Rhapsody In Blue non bastano ad addolcire un panorama eroso dall’interno. Crisi fiscale, dissesto amministrativo, disagio sociale e delinquenza costituiscono la progressione che spacca la mela in due. E non è chiaro se sia più marcio l’esterno o la polpa.
Contemporaneamente, alla descrizione monocromatica del cineasta si contrappongono i colori accesi del punk d’importazione pronti a mescolarsi con le tinte della disco e della new wave che fermenta lungo il Lower East Side. È questo lo sfondo su cui leggere Against The Odds 1974-1982 (Numerogroup-UMC), prima vera retrospettiva dell’opera dei Blondie (quelli del periodo classico, escludendo la velleitaria reunion a cavallo dei due secoli):  O, se preferite, un ritratto collettivo su trama da love story. Lui, Chris Stein, diretto verso Brooklyn sulle tracce dei New York Dolls; lei, Deborah Harry dal New Jersey, ex cameriera e Playboy Bunny alla ricerca di successo. Sodalizio sentimentale e artistico, cellula di una nuova band tra i cui ranghi si avvicendano i batteristi Billy O’Connun cofanetto con i primi sei album della band, rimasterizzati e corredati di outtakes, due volumi di note, appunti, commenti traccia per traccia, immagini inedite.or e Clem Burke, i bassisti Fred Smith, Gary Valentine e Nigel Harrison, il chitarrista Frank Infante e il tastierista Jimmy Destri.

ANCORA Manhattan, Bowery Street: due anni di stenti tra prove quotidiane e pane bianco; la gavetta al Max’s Kansas City e al CBGB; la Chrysalis che rileva la loro prima etichetta, lanciandoli nell’iperuranio pop. Potenza sonora quanto visiva, in uno scenario sempre più multimediale. Debbie ne coglie subito il valore, e il nome stesso la dice lunga sull’impatto iconico della frontman, tanto che la band pensa bene di mettere in commercio gadget con la scritta «Blondie is a group!».

Un cofanetto con i primi sei album della band, rimasterizzati e corredati di outtakes, due volumi di note, appunti, commenti traccia per traccia, immagini inedite.

Il seme del punk è avvolto nel pericarpo del rock anni Sessanta, di cui si eredita il linguaggio allusivo e lo humour a denti stretti: questi i motivi dei due album iniziali, Blondie (1976) e Plastic Letters (1977), prima dell’avvento di Mike Chapman in cabina di regia. È il 1978, e sfogliando pagine sempre più patinate si arriva a Parallel Lines e alla loro più grande hit, Heart Of Glass. Come da copione, il pubblico della prima ora urla al tradimento, non accorgendosi forse che un intero contesto — non solo musicale — sta cambiando, mentre l’edonistico riflusso disco disinnesca l’iconoclastia punk. Non inquadrati, sogghignano già Reagan e la Thatcher.

IL MOMENTO CLOU dell’intera raccolta si ha proprio quando le outtakes documentano il tragitto che conduce un brano pseudo reggae, grezzo e un po’ indeciso, ai fasti della versione finale per mano di Chapman. È quanto accade due anni dopo con Call Me, successo portentoso inciso con Giorgio Moroder alla consolle. In mezzo c’era stato Eat To The Beat (1979), subito dopo Autoamerican (1980), più sperimentale, già minato dalle droghe e dagli scontri di ego, preludio del passo finale The Hunter (1982).
Riascoltati ora, sistematizzati in un corpo unico, quei sei album raccontano la storia di un gruppo i cui destini sono inseparabili da un’epoca e da una città. Ascoltiamo le tracce ripulite, ma ci appaiono davanti le luci della metro, le insegne dei club, le sirene azzurre della polizia, le copertine abbaglianti e i primi piani della bionda ex cameriera. Che nelle note, in un incipit certo più prevedibile di quello alleniano, scrive: «Potrei fare una lunga lista di cose che avrei fatto diversamente. Ma se tornassi indietro, probabilmente farei lo stesso».