È sempre lì la Ever Given, ricorda una gigantesca balena spiaggiata, incagliata tra le sponde del Canale di Suez. Da quasi quattro giorni impedisce la navigazione in entrambe le direzioni nello stretto ma vitale passaggio marittimo. E tiene sospeso il commercio navale di una parte del mondo. Non sarà facile liberare e rimettere in galleggiamento questo cargo da 220mila tonnellate, lungo 400 metri e che trasporta 20mila container, rimasto insabbiato alle 7.45 di martedì perché sopraffatto da forti venti e da una tempesta di sabbia con raffiche fino a 30 miglia orarie.

   Squadre specializzate olandesi e giapponesi giunte ieri studiano come disincagliarlo. Non che l’Egitto non ci stia provando da solo. L’Autorità del Canale di Suez è intervenuta con due draghe, quattro scavatrici e nove rimorchiatori. Ha provato a far ripulire il limo attorno al cargo e i rimorchiatori l’hanno spinto con forza nella speranza che potesse trovare un po’ di slancio e manovrare. Tutto inutile. L’armatore giapponese della portacontainer ha comunicato sconsolato che le operazioni potrebbero richiedere «da giorni a settimane». Popolo che ama la comicità e fare battute, gli egiziani hanno inondato i social di meme che prendono in giro le autorità e i soccorritori. In uno c’è la foto una scavatrice al lavoro che appare minuscola e impotente ai piedi dell’enorme Ever Given.

Ma c’è poco da scherzare perché almeno 150 navi che devono passare attraverso il corso d’acqua sono ferme   vicino a Port Said sul Mar Mediterraneo, Port Suez sul Mar Rosso oltre a quelle già bloccate sul Great Bitter Lake egiziano. La rivista marittima Lloyd’s List stima che ogni giorno di chiusura del Canale di Suez rappresenta un blocco per più di nove miliardi di dollari di merci. Un quarto di tutto il traffico quotidiano del Canale di Suez proviene da navi gigantesche come la Ever Given. Si teme un effetto domino con ritardi nella consegna delle merci che potrebbero accumularsi per settimane, se non per mesi, con interruzioni negli approvvigionamenti di ogni genere di merci.

Per l’Egitto e il regime di Abdel Fattah El Sisi, le conseguenze economiche e d’immagine dell’accaduto si riveleranno ingenti mentre vengono posti interrogativi sulla capacità del governo del Cairo di gestire una delle rotte più trafficate del mondo dove passa il 10% del commercio internazionale via mare (nel 2020 sono transitate quasi 19.000 navi). Le perdite per il canale, per le linee marittime e per l’Egitto sono già ora dell’ordine di centinaia di milioni di dollari. «Questa crisi minaccia le forniture energetiche in tutto il mondo e potrebbe costringere le compagnie a cercare rotte alternative, per quanto molto più costose del Canale di Suez», ha avvertito Rashad Abdo, direttore dell’Egyptian Forum for Economic Studies. E infatti la Russia ha prontamente proposto di dirottare il traffico marittimo dall’Oriente verso il Mediterraneo e l’Europa per la Northern Sea Route, la rotta tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico lungo la costa russa della Siberia. Passare per Suez abbatte i costi e accorcia drasticamente i viaggi tra Asia ed Europa ma il gigante mondiale dei trasporti marittimi Maersk e la Hapag-Lloyd ieri stavano già esaminando le opzioni per evitare il canale egiziano. A cominciare dalla navigazione intorno al Capo di Buona Speranza, all’estremità meridionale dell’Africa.

El Sisi ha puntato non poco sul raddoppio, realizzato qualche anno fa, del Canale di Suez, e gli onerosi pedaggi che pagano petroliere, mercantili e portacontainer per attraversarlo. Senza dubbio era e resta una voce rilevante per le entrate dello Stato stimate tra 5 e 6 miliardi di dollari all’anno. Ma tanti, in Egitto e nel resto del mondo, non hanno mai creduto all’utilità di questo progetto faraonico attuato dal presidente egiziano. Il traffico navale si intensifica solo quando il costo del petrolio sale, altrimenti tante compagnie scelgono rotte più lunghe per evitare Suez e il pedaggio. Altri ancora oggi avvertono sui rischi per l’ambiente derivanti dall’allargamento del canale. A cominciare dal maggiore inquinamento derivante dall’aumento del numero e della frequenza dei passaggi navali. Per finire all’infestazione da parte di specie animali pericolose per l’ecosistema del Mediterraneo.