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Bloccati dal virus nei ghetti senza cibo e senza lavoro

Bloccati dal virus nei ghetti senza cibo e senza lavoroLa tendopoli di Rosarno – Emblema

Nella Piana di Gioia Tauro La stagione è finita ma i migranti senza contratto non possono partire

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 19 aprile 2020

«Sono bloccati nella Piana di Gioia Tauro, vivono in condizioni terribili e hanno paura di contrarre il Covid-19, “l’Italia ci riserva il posto degli animali”» ci dicono. Ruggero Marra è un delegato Usb di Reggio Calabria ed esponente di Potere al popolo, segue le lotte della comunità di braccianti africani della zona, che da settimane si riuniscono per cercare di organizzarsi.

«NON HANNO PIÙ CIBO – spiega – perché molti non stanno lavorando, stiamo portando pacchi alimentari ma la situazione è tragica». Tra la tendopoli ufficiale di San Ferdinando e gli altri insediamenti informali sparsi nell’area, sono circa 1.200 i braccianti migranti: la stagione nella piana è praticamente finita, la maggior parte sta cercando vie di fuga per raggiungere Puglia, Basilicata, Campania, Piemonte ma chi non ha il contratto viene fermato ai posti di blocco. «Circa in 70 sono riusciti a spostarsi. Probabilmente i datori di lavoro hanno mandato i contratti via mail pur di avere la manodopera disponibile per i loro raccolti».

I PIÙ FORTUNATI lavorano nelle serre: dalle 7 di mattina alle 5 del pomeriggio per 35 euro al giorno, il contratto che firmano prevede un compenso più alto per meno ore ma sono i compromessi che devono digerire per avere un impiego. Raccolgono zucchine e fragole: «Un ragazzo mi ha raccontato che mascherina e guanti li ha avuti il primo giorno e poi basta. Così preferisce usarli quando esce. Raccoglie fragole nel vibonese, a 30 chilometri da Gioia Tauro. Ha la schiena rotta perché è particolarmente faticoso raccogliere fragole ma, rispetto agli altri, si sente fortunato perché vive in una casa». Gli altri restano negli accampamenti con la paura del contagio.

LA CONDIZIONE PEGGIORE si registra nel ghetto di contrada Russo a Taurianova, a pochi passi da Rosarno: è il campo messo peggio, circa 300 persone vivono in baracche fatiscenti senza servizi igienici né acqua, in edifici ricoperti d’amianto. Un mese fa la regione Calabria ha inviato a San Ferdinando una cucina da campo: la comunità l’ha rifiutata in segno di protesta. «Il problema non è cucinare. Non vogliono che venga abbellito il ghetto, vogliono uscirne, affittare una casa – spiega Marra -. Qualcuno ci è riuscito: pagano regolarmente il canone perché non vogliono avere problemi con il permesso di soggiorno ma c’è molta diffidenza da parte dei proprietari. Avevamo chiesto alla regione di istituire un fondo di garanzia ma gli enti pubblici concepiscono solo interventi compatibili con lo stato di emergenza, non fanno nulla per superarlo».

BLOCCATI NELLA PIANA, in molti hanno contattato il sindacato per ottenere il bonus di 600 euro per chi ha avuto registrate almeno 50 giornate lavorative nel corso del 2019: «Sono convinti di avere i requisiti ma, purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi i datori di lavoro registrano pochissime giornate e così svanisce l’opportunità di avere il sussidio che li avrebbe aiutati ad andare avanti. Quello che è peggio è che nella realtà fanno molte più ore. Ore che però finiscono ai falsi braccianti italiani, che non hanno mai messo piede in campagna. Siccome i controlli non ci sono, questa è diventata la prassi. Così la rabbia nella comunità aumenta».

I GHETTI non si riempiono solo di braccianti ma anche di disperati che sono stati espulsi dal circuito dell’accoglienza e non trovano riparo altrove. Tre settimane fa in quello di Taurianova un uomo con problemi psichici ha ucciso senza motivo un ragazzo maliano di 28 anni colpendolo ripetutamente alla testa: «È una morte da ghetto – conclude Marra -, una morte di chi vive in condizioni impossibili. Il dibattito sulla regolarizzazione di questi giorni è vergognoso: sono tutti preoccupati di metterli al lavoro e nessuno considera i loro diritti». E Viola Carofalo, portavoce di Pap: «Giustizia e diritti non possono essere legati a se e quanto produci. Si è parlato di un permesso temporaneo, si tratterebbe quindi di una regolarizzazione “tampone” che non risolve il problema dei diritti e dei documenti. Risponde solo al bisogno immediato di manodopera delle aziende».

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