Nel 1943, quando esce Faux pas, Maurice Blanchot ha alle spalle una ormai decennale militanza giornalistica sui principali fogli dell’estrema destra francese; a molti, anche in ambienti di orientamento ideologico opposto, appare come il più acuto e originale critico militante in attività; nei circoli d’avanguardia è considerato una promessa della letteratura transalpina: da qualche mese Gallimard ha pubblicato il suo secondo romanzo, Aminadab (mai tradotto in italiano: stessa sorte, da noi, anche per il suo ambizioso esordio, Thomas l’obscur, del 1941).

Il suo primo volume di saggi è in realtà una raccolta di scritti d’occasione (per lo più recensioni); e nasce per sollecitazione dell’editore Gallimard, non per scelta dell’autore: che consegna le sue esitazioni al gioco di parole implicito in un titolo declinabile sia al singolare (alluderebbe a un passo falso nella carriera dello stesso Blanchot), sia al plurale, come giustamente recita la versione italiana di Elina Klersy Imberciadori, da poco rimessa in circolazione dal Saggiatore: Passi falsi (la traduzione, dopo quasi mezzo secolo, regge bene, ma sarebbe stato opportuno eliminare qualche errore).

Negletti i temi e i significati
Il volume era uscito da Garzanti nel 1976; e da troppo tempo mancava nelle nostre librerie: pur nella sua natura composita e a tratti acerba, è infatti indispensabile per seguire la genesi del pensiero di uno dei più influenti e controversi teorici novecenteschi della letteratura; del resto, anche quando parla di testi oggi dimenticati (per esempio, di poeti francesi minori di fine anni Trenta), Passi falsi dice qualcosa di importante, che ancora ci lascia con qualche interrogativo. Il fatto è che a Blanchot non interessa quasi mai la singola opera: gli interessa la letteratura in generale. Di rado i suoi saggi possiedono i requisiti minimi, informativi e interpretativi, imposti dalla deontologia del buon recensore. Come critico, sa dire cosa acutissime; e tuttavia le dice sempre en passant, quasi controvoglia; ignora i temi e i significati delle opere: gli importa il movimento logico della scrittura, lo stile del pensiero. Anche in Passi falsi ha pagine illuminanti: non solo su scrittori che sente affini, come Mallarmé e Proust; perfino su Camus e Sartre, di cui l’impegno militante, l’umanesimo volontaristico diventeranno sempre più i suoi idoli polemici. Ma i libri di cui parla sembrano soprattutto pretesti per avviare un ragionamento di portata ontologica, spesso volutamente fondato sulle sabbie mobili del paradosso.

Il bisogno di radicalità
Fin dai primi anni Quaranta, i «passi falsi» dei singoli autori additano la possibilità assoluta, e quasi mistica, di quel Libro a venire che darà il titolo, nel 1959, alla più celebre raccolta di saggi di Blanchot; ogni capitolo contribuisce a circoscrivere natura e possibilità di esistenza della letteratura, non a offrire chiavi ermeneutiche per i testi di cui parla: ennesimo e non piccolo paradosso, per colui che è stato, nell’ombra sdegnosa di cui si è circondato nel dopoguerra, il più prestigioso guru del testualismo novecentesco.

L’ampio saggio introduttivo, Dall’angoscia al linguaggio, ponendo le basi di quello che sarà l’asistematico sistema di Blanchot, ne denuncia anche la sorprendente ascendenza esistenzialista: i Passi falsi non muovono soltanto, come è ovvio, all’ombra della poetica di Valéry (e di Paulhan); sono guidati anche dall’antropologia letteraria di Bataille, dalla lezione filosofica di Kierkegaard (il cui nome appare significativamente in apertura di volume), da tutti quei pensatori che hanno scelto «come patria l’esilio, e nella contraddizione, il paradosso, il vuoto, l’angoscia» intendono la condizione umana «come enigma e come domanda». Ma se c’è un tratto che caratterizza Blanchot, di là dai virtuosismi della sua prosa, è il bisogno inappagabile di radicalità (anche politica), che gli consente di denunciare, per esempio, certa faciloneria dialettica di un Camus, che nel Mito di Sisifo «fa dell’assurdo non ciò che turba e spezza tutto, ma ciò che è suscettibile di accomodamento e che addirittura accomoda tutto»; o di un Sartre, le cui Mosche, pure apprezzate, difettano di quel «valore sacrilego» che dovrebbe alimentarne la «forza tragica».
Come all’Oreste del mito, alla letteratura tutta, per Blanchot, non tocca il compito «di abolire l’angoscia e l’infelicità», ma «di legare l’uomo all’angoscia con un legame più puro».

Se per Paul Valéry, come è noto, la grandezza di Leonardo da Vinci sta anche nel suo rifiuto dell’inconoscibile e dell’impossibile («Nessun abisso spalancato alla sua destra. Un abisso gli farebbe pensare a un ponte»), Blanchot descrive implicitamente se stesso come l’anti-Leonardo: i suoi paradossi e il suo radicalismo teorico distruggono i fragili ponti e le illusioni realiste su cui poggia la tradizione umanista. Come Mallarmé, il critico si presenta come «l’eroe del vuoto», nel «rifiuto indefinito di essere qualsiasi cosa – il che è la designazione stessa dello spirito». Il silenzio, l’assenza, il nulla, la morte; appunto l’abisso e il vuoto: le figure che servono a Blanchot per imporre come un’evidenza teorica, con vertiginose scorciatoie concettuali, l’alterità incommensurabile della letteratura hanno in comune quella pervicace negazione della realtà, quell’opposizione assoluta al mondo, che rimarrà, esibita o sottotraccia, il presupposto di quasi tutta la più accreditata teoria letteraria novecentesca, dal formalismo alla decostruzione.

Ennesimo paradosso
Vale la pena di sottolinearlo: la versione più radicale di un’idea sublime e autoreferenziale della letteratura – «inconcepibile», per via «dell’assurdità interiore che l’abita»; e al tempo stesso unica possibilità, negativa, di «esistenza assoluta» – prende forma in articoli di giornale scritti durante la seconda guerra mondiale nella Francia occupata dai nazisti e pubblicati in larga maggioranza sul «Journal des Débats», foglio nato con la Rivoluzione del 1789 e ingloriosamente finito nel coro dei più supini fiancheggiatori del regime di Vichy. È l’ennesimo paradosso, e forse non è privo di significato.

Forte è l’impressione che la metafisica del «libro a venire» sia segnata all’origine dalla rimozione di un concreto vissuto storico con cui il saggista è in realtà molto, troppo compromesso. Ma certo Blanchot accoglierebbe con sprezzante sarcasmo quest’ipotesi: frutto di meschino e ideologico biografismo. Forse risponderebbe con le parole che spende, a tutt’altro proposito, per Rilke: «la sua esperienza profonda nulla ha a che vedere con i facili moti dell’istinto e le spinte dell’inconscio»; al contrario, «è esigenza di una coscienza che si fa più vasta, ricerca di una verità difficile».