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Blake, le porte dell’inferno spalancate dall’artigianato

Blake, le porte dell’inferno spalancate dall’artigianatoWilliam Blake, «Nebuchadnezzar», Londra, Tate Gallery

A Oxford, Ashmolean Museum, «William Blake. Apprentice and master» Una bellissima esposizione sul William Blake incisore e creatore di libri: che spiega come le sue figure grandiose siano il frutto di prodigi tecnici

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 18 gennaio 2015

The man who does not know the beginning, never can know the end of art (‘Chi non conosce l’inizio non può mai conoscere il fine dell’arte’), scriveva William Blake in risposta all’invito del maestro George Michael Moser a studiare Le Brun e Rubens. Sapeva di essere un artista ben prima di diventarlo, quando da bambino frequentava le aste pubbliche a Covent Garden e quando ancora lavorava come apprendista nella bottega di James Basire, l’incisore ufficiale della Royal Society. Era controcorrente, infatti, al tempo, ispirarsi a Michelangelo e Raffaello piuttosto che ai maestri del chiaroscuro; ma Blake si poneva fin d’allora sotto l’insegna del non-finito, dell’irregolare e del difettoso, come si legge nell’avvertenza dei suoi Poetical Sketches, pubblicati nel 1783, a venticinque anni. Paradossi della storia dell’arte, quando i campioni del Rinascimento italiano non erano modelli di perfezione armonica, ma maestri della linea e del disegno di contro agli effetti luministici del colore. Cinque anni prima, il falso di Thomas Chatterton, che aveva pubblicato testi suoi attribuendoli a un immaginario monaco medioevale, Thomas Rowley, era stato smascherato; ma l’autore non poté né spaventarsi né gioirne, perché si era suicidato già da otto anni.

Riscoperta del Medio Evo, valorizzazione dello schizzo, fascinazione del falso d’autore e della morte in gioventù: tutto ciò presto sarà chiamato «romanticismo». Il percorso creativo di Blake, artista totale tra pittura e poesia, è ora ricostruito in una bellissima mostra all’Ashmolean Museum di Oxford (William Blake Apprentice and Master, fino all’1 marzo; catalogo a cura di Michael Phillips, pp. 272, £ 30,00), che costituisce uno sbalorditivo ingresso nel laboratorio dell’autore, con un’attenzione minuziosa ai contesti e alle tecniche della sua esperienza, cosa rara e preziosissima. Restituito al suo artigianato, fatto di puntini e losanghe su lastre, colpi di cesello, manoscritti, appunti, abbozzi e bozze, l’artista resta, romanticamente, un genio, totalmente immerso nella sua passione, ma tale solo perché lavora tantissimo, si forma alla scuola dei classici, frequenta le istituzioni più prestigiose e si confronta col mercato. Tutt’altro che isolato e ispirato, incompreso e irriverente, eslege e narciso: Blake ha l’arte nel sangue e nella testa, ma la realizza con le mani, al punto da produrre, oltre cent’anni prima degli avanguardisti novecenteschi, quel libro illustrato in cui le parole erano incise anziché stampate. Sono da vedere, infatti, anziché da leggere, i libri di Blake, a dispetto di una lunga tradizione scolastica e accademica che ha isolato il testo nell’ambizione a un primato della poesia pura: non si può separare la mano che ha solcato la lastra col bulino, intagliandola e scavandola, tanto dall’occhio che ha deciso di staccare lo strumento, lasciando il segno della matrice nell’impressione sulla carta, quanto dall’occhio che contempla, verificando le tracce della mano nell’effetto del prodotto compiuto. Su una stessa tavola parole e immagini convivevano come in un giardino già piantato e seminato, perché, da The marriage of Heaven and Hell (1790 circa), corpo e anima non sono separati: «questo io lo farò stampando, secondo il metodo infernale, per mezzo di corrosivi che, all’Inferno, sono curativi e salutari, i quali sciolgono le superfici visibili, e fanno apparire l’infinito che era nascosto. Se le porte della percezione fossero pulite, ogni cosa apparirebbe all’uomo com’è, infinita».

La sua tecnica diventava così la sua estetica: come sulla lastra faceva emergere il rilievo, così nell’arte portava alla luce quello spirito infinito che è l’illuminazione da raggiungere dopo aver eliminato tutti i sedimenti dell’esperienza. Opponendosi a Locke, che insegnava che la mente umana è una tabula rasa su cui si deposita la conoscenza attraverso l’esperienza sensoriale (una lastra da incidere), Blake invitava a recuperare e riscoprire quello stato di grazia, al di qua dell’esperienza, che la mente prova al momento della nascita, prima del vissuto (una lastra a rilievo). Di qui le grandiosi visioni poetiche e pittoriche che aprono le porte della percezione, the doors of perception, con quella formula, che risale all’indietro a Lucrezio e si proietta in avanti verso Aldous Huxley e fino ai Doors, verso tutti coloro che hanno affidato la conoscenza all’allucinazione piuttosto che ai sensi, sognatori e psichedelici. «Qualcosa come l’eccitazione che si prova nel gioco d’azzardo», diceva l’allievo e seguace Samuel Palmer dell’arte di preparare le incisioni per la stampa di disegni a colori.

La mostra dispiega incisioni, appunti, prove scartate e non-finiti voluti, immettendo sempre l’esperienza di Blake nel contesto della cultura materiale del suo tempo, fino a offrire una ricostruzione del suo studio-stamperia al n. 13 di Hercules Building in Lambeth, nel sud di Londra. Inventava perché sperimentava, Blake, confrontandosi con l’esistente per andare oltre: nessun lampo di genio o illuminazione fulminante, furor divino e grazia ricevuta, ma il bisogno di cercare nuove soluzioni espressive, che sono prima di tutto nuove soluzioni materiali, presiede a tutta la sua attività, di vero e proprio ‘inventore’ che passò a nuove tecniche di stampa proprio perché conosceva, avendole usate, quelle precedenti. Il libro miniato del resto non fu certo un’invenzione di Blake, che aveva ben presenti libri di vignette contemporanei, satiriche, educative o devozionali, oltre ai vari manoscritti illustrati di tradizione medievale, ma la grandiosità figurativa, connessa all’unicità dell’impressione, di progetti come Songs of Innocence, Visions of the Daughters of Albion, America: a Prophecy, Europe: a Prophecy, The Book of Los, Milton e Jerusalem, tutti qui in mostra, rivela quella sintesi straordinaria tra res cogitans e res extensa, anima e corpo, che fa di parola e figura, entrambe fissate, effigiate, con un metodo che si nega alla ripetizione tipografica, un’unità inscindibile, secondo una poetica dell’apoteosi che privilegia sempre l’estasi sul racconto, la matrice mistica e pittorica su ogni possibilità di narrazione nella storia. Tutto è ekphrasis (etimologicamente: parlar fuori, designare un oggetto inanimato con un nome), perché l’operazione estetica punta non a conoscere, ma a vivere l’emozione del conoscere. Quando si arriva alle illustrazioni del Paradiso Perduto, delle Bucoliche di Virgilio e della Divina Commedia, l’apoteosi si compie, perché l’ekphrasis è insieme descrizione del testo e suo compimento, realizzazione e fuoriuscita, identificazione ed emersione: la lettera è sublimata e sussunta dalla sua rappresentazione, che la trasfigura, trascende e distrae, eppure, spiritualizzandola, la comprende e materializza. Chiamato «l’interprete» dai suoi allievi e seguaci, The Ancients, Blake li invitava a lavorare a partire non dalla natura, ma dall’occhio interiore, the inner eye.

Se qualcosa viene sacrificato ai contenuti (iconografia, temi, stile), la mancanza è largamente compensata da quest’attenzione estrema alla tecnica, che ci restituisce dell’artista il fare concreto, la prassi operaia, il lavoro quotidiano, l’officina fatta di ferri del mestiere e alambicchi chimici, nella consapevolezza, sempre da ribadire, che i contenuti non esistono senza la loro elaborazione formale. Se confrontiamo il Giuseppe di Arimatea tra le rocce di Albione del 1773, quando Blake aveva solo 15 anni, e quello del 1820, quando ne aveva 62, confronto con cui la mostra si apre, l’evoluzione dell’incisione si rivela fatto allo stesso tempo tecnico ed estetico, col passaggio dall’intimistico al visionario, che è passaggio dal tratteggio e dalle losanghe puntinate della prima impressione alla brunitura della seconda. Qualche concessione al culto progressivo del miglioramento e al mito dell’artista campione della libertà è il prezzo da pagare all’ideologia britannica, ma leggere il famoso commento (scritto subito dopo la delusione dell’esperienza di affiliazione al profeta mistico Emanuel Swedenborg) che «il motivo per cui Milton scrisse in catene degli angeli e di Dio, e in libertà dei diavoli e dell’Inferno, è perché egli era un vero Poeta e stava dalla parte del diavolo senza saperlo» fa ancora il suo effetto: l’artista romantico non sta in cielo, ma sulla terra, tra il fumo degli acidi e il puzzo della vernice, che soli introducono all’esperienza visionaria.

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