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Blackburn, la schiavitù abolita, paradigma di libertà

Blackburn, la schiavitù abolita, paradigma di libertàPalmer Hayden, Young Girl Reading, 1960

Storia di diritti negati I risultati delle ricerche che riguardano la cattività degli africani e dei loro discendenti nelle Americhe dal XVI al XIX secolo, in un saggio imponente: «Il crogiolo americano», da Einaudi

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 17 gennaio 2021

Quasi mezzo secolo ci separa dalla traduzione, allora tempestiva, del pionieristico lavoro intrapreso dal sociologo e storico statunitense George P. Rawick Lo schiavo americano dal tramonto all’alba. La formazione della comunità nera durante la schiavitù negli Stati Uniti (che Feltrinelli tradusse, nel 1973, a appena un anno dall’uscita). Tra quelle pagine, una straordinaria documentazione, volutamente poi dimenticata, allineava le autobiografie di ex schiavi raccolte negli anni Trenta dal Writers Project (nato dalla Works Progress Administration, la grande agenzia del New Deal) dischiudendo il pianeta fino ad allora inesplorato della comunità afroamericana. Una comunità all’interno della quale – scrisse Rawick – «gli schiavi combattevano nell’ombra una battaglia giornaliera» di sorda, quotidiana resistenza e di paziente costruzione di «un’identità oppositiva destinata a durare ed estendersi».

Quel saggio, e la significativa prefazione del suo traduttore Bruno Cartosio, tracciavano, sulle orme di Marx, la cruciale relazione che il lavoro schiavile aveva intrattenuto con lo sviluppo del capitalismo, secondo una linea di indagine che lo stesso Cartosio avrebbe approfondito di lì a poco, traducendo e introducendo un saggio del grande studioso e militante caraibico marxista C.L.R. James sul ruolo della tratta «nello sviluppo degli Stati Uniti e del mondo occidentale»: Da schiavo a proletario. Tre saggi sull’evoluzione storica del proletariato nero negli Stati Uniti (Musolini, 1973).

Uno studioso di solida formazione
Molta acqua, atlantica e non, è passata sotto i ponti della storia e della storiografia, da quei primi coraggiosi esperimenti, sollecitati dalle lotte transnazionali di liberazione nera degli anni Sessanta e Settanta, che avviarono una discussione sulla storia della schiavitù attorno all’asse spaziale del «commercio triangolare» e a quello temporale del XVIII e XIX secolo. La ignominiosa svalutazione del lavoro e il rilancio di vecchie e nuove forme di sfruttamento schiavile nell’ombra della globalizzazione capitalistica e dei nuovi flussi migratori mondiali che l’hanno accompagnata, l’incrudirsi delle pratiche razziste sotto tutte le latitudini, le lotte contro le disuguaglianze in nome della dignità individuale e collettiva e dei «diritti umani» hanno suscitato un sempre più articolato interesse per le forme di lavoro non libero, nello spazio e nel tempo. Finché una decina d’anni fa il sociologo e storico britannico Robin Blackburn ha provato a sintetizzare i risultati delle ricerche, sue e di altri studiosi, almeno per quel che concerne la «schiavitù degli africani e dei loro discendenti nelle Americhe dal XVI al XIX secolo», in un saggio imponente, Il crogiolo americano Schiavismo, emancipazione e diritti umani (in uscita martedì, traduzione di Luigi Giacone, Einaudi, pp. 680, € 12,90 ) che ora arriva sui nostri scaffali.

Figura di punta dei movimenti d’oltre Manica degli anni Sessanta e Settanta, Blackburn aveva tutte le carte in regola per un’impresa tanto impegnativa: ha collaborato alla New Left Review sin dal 1962 e, insieme a Tariq Alì, intervistò John Lennon e Yoko Ono; poi divenne un eminente studioso della schiavitù atlantica, senza mai dismettere le proprie convinzioni radicali. Lo dimostrano le precedenti monografie da lui dedicate, rispettivamente, al crollo – The Overthrow of Colonial Slavery, 1776-1848, Verso, 1988) e alla formazione della schiavitù (New World Slavery: from the Baroque to the Modern 1492-1800, Verso, 1997). E lo confermano i quattordici, nitidi capitoli di questo più recente libro, che Blackburn ha intitolato Crogiolo – spiega – per due motivi. Da una parte «perché gli europei ricorsero alla schiavitù e le conferirono un carattere fortemente razziale», dall’altra perché esplora «il ruolo della resistenza e della ribellione, dell’abolizionismo e della lotta di classe» grazie a cui vennero distrutti, alla fin fine, i sistemi schiavisti del Nuovo Mondo.

La convinzione di Blackburn è «che nell’ardore di quegli scontri epocali sulla schiavitù sia stata proclamata, e talvolta incarnata in modo precario, una nuova nozione di libertà e unità del genere umano».
Il saggio è strutturato in quattro parti, distese secondo una costruzione a tre fasi, sia per quanto concerne la crescita e lo sviluppo della schiavitù, sia per quanto riguarda la lunga, multiforme, battaglia contro di essa. Per ogni sezione Blackburn ha fatto tesoro del lavoro di tre studiosi novecenteschi, discendenti di schiavi, la cui opera di apripista ha anticipato e guidato tutte le ricerche successive. Opportunamente temperato dalle critiche emerse negli ultimi decenni, l’influsso dello studioso e statista caraibico Eric Williams domina le prime sezioni, che si occupano degli aspetti strutturali e soggettivi dall’età dei metalli preziosi a quella dello zucchero e del tabacco, sino fine Settecento.

C.L R. James e Du Bois tra le fonti
Nelle pagine dedicate al decisivo spartiacque della rivoluzione haitiana, a cavallo fra Sette e Ottocento, Blackburn utilizza invece la formidabile lezione di C.L.R James, il non dimenticato autore (nel 1938!) dei Giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco (Feltrinelli, 1968). E nella quarta parte, quasi metà del libro, dedicata alla pluridecennale e controversa stagione dell’abolizionismo nell’età dell’industrializzazione, del cotone e del caffè, lo spirito-guida di W.E.B. Du Bois – lo studioso e attivista afroamericano che visse in prima persona i gravi limiti della «liberazione» seguita alla Guerra civile statunitense – tiene Blackburn al riparo da facili celebrazioni, istradandolo sul sentiero dello sviluppo «a spirale» che l’emancipazione ha disegnato, e consentendogli al tempo stesso di guardare criticamente alla retorica, presente e passata, dei«diritti umani» e ai «dilemmi» con i quali Du Bois dovette misurarsi nell’immediato secondo dopoguerra mondiale.

Nonostante non manchino piccoli errori e omissioni (nella parte su Haiti, il leader insurrezionale Jean Pierrot viene confuso col futuro presidente Louis Pierrot) e nonostante la tendenza a sottovalutare le contraddizioni dell’eroe rivoluzionario Toussaint Louverture – evidenziate dal recente Black Spartacus di Sudhir Hazareesingh (Penguin, 2020) – l’impressione è che sarà difficile fare a meno di questa imponente e acuta sintesi per molti anni a venire.

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