Data al 1946 una coloratissima allegoria di Renato Birolli: una vista dall’alto bipartita, metà rigogliosa e popolata di animali, l’altra inaridita e desolata: come recita il lungo titolo apposto sul foglio, È scoppiata una bomba atomica su una parte della terra. Datano ai due anni precedenti, invece, gli oltre cento disegni sulla Resistenza – di cui ottantasei pubblicati in Italia 1944 – e le serie inedite dei Vescovi e dei Poveri.

Sono esperienze che cadono in un momento cruciale della dialettica fra disegno e pittura, fra dominio del segno grafico e ricerca espressiva attraverso il colore: un vecchio dibattito, tornato d’attualità grazie alla fortuna dei pittori romantici francesi presso quella fronda di «Corrente» che scelse il colore timbrico e un tratto corsivo, avvolgente come opzione antiretorica. Restava però da decidere, di volta in volta, se il disegno giocasse un ruolo preparatorio, subalterno alla pittura, o avesse piuttosto dignità autonoma.

Si muove intorno a questi temi la mostra Renato Birolli. Dalla matita al pennello, a Milano, Casa Boschi Di Stefano, fino all’11 giugno (catalogo Nomos, pp. 80, € 15,00), a cura di Viviana Birolli e Paolo Rusconi, autore quest’ultimo anche di un importante libro sui disegni di Birolli di prossima pubblicazione. Il tema del disegno resterà cruciale per tutta la vita del pittore: presenza costante nelle note dei taccuini e nella corrispondenza con critici e amici, nel corso della sua carriera vi ricorse sia per studiare i motivi che avrebbe poi tradotto in pittura, sia per immagini destinate alla stampa, sia come autonomo momento di chiarimento espressivo.

Se da una parte, nel 1937, diede alle stampe per le edizioni di Campografico i quarantasei disegni di Metamorfosi, accompagnati da uno scritto dell’amico Sandro Bini, dall’altra Birolli riempì di segni e immagini, di studi sul motivo e visioni di criptico carattere allegorico una serie di album, bloc-notes e altri fogli sparsi.

Ma il «nucleo emozionale», a cui alludeva in una nota del 1936, restava di preminente dominio cromatico, affidato a una pittura gremita di figure filiformi – memori di Cézanne ma con accentuati contrasti di complementari –, immerse in una natura profonda e irrelata dal tempo e dallo spazio: in quell’Eden del 1937, o nel coevo Eldorado – entrambi comprati da Antonio Boschi e moglie e rimasti nella loro collezione –, non era necessario alcun contributo grafico per rendere l’intreccio di corpi e arbusti, e persino su carta Birolli ricorre ai pastelli e alle crete per ottenere effetti di sfaldamento formale.

Eppure, pochi anni più tardi, si assiste come a una frattura fra i temi della pittura, dai momenti di vita contadina alla natura morta, fino ai ritratti degli amici come Salvatore Quasimodo (1941) dalla spessa materia, e quelli destinati alla carta: il disegno a inchiostro di sola linea, non gravato da retorica monumentale rispetto ad altri medium grafici, sembra l’unico tramite attraverso cui sia possibile raffigurare gli orrori di quella tragica stagione dell’umanità; il solo che potesse impietosamente restituire lo spessore drammatico dei corpi accatastati e torturati restando al riparo da una tavolozza brillante che poteva equivocamente apparire idilliaca e visionaria. Del resto, i «disastri» di Goya avevano insegnato che era sufficiente il segno spesso e graffiante per tratteggiare la violenza più efferata: e Birolli, come già nei rilievi stiacciati di Manzù, abbozzò su carta un Crocefisso di spalle, issato tramite funi da un paio di vescovi in abiti liturgici.

Il dopoguerra, però, avrebbe condotto lui e i suoi compagni di strada a un bivio, al contrasto sempre più profondo fra scelte estetiche e convinzioni morali: non era semplice servire la causa del Partito, credere nei principi del Comunismo, accettando al contempo di fare i conti con la via dell’astrazione. Per Birolli, come fece notare Rusconi in un saggio del 2014, le due opzioni non saranno delle alternative: continuò a dar prova di fede politica inviando vignette a l’Unità. Al tempo stesso, però, pittura e disegno erano tornate a un dialogo serrato su basi cromatiche: l’inchiostro aveva lasciato di nuovo spazio ai pastelli a cera, accompagnando la mano nel processo di astrazione dal paesaggio.

La metamorfosi dello stile, ora, si misura di anno in anno, in un’improvvisa accelerazione dei tempi che si lascia alle spalle soluzioni e metodi di costruzione dell’immagine. Le vedute del 1954, come Quantità di una collina o La vigna è bianca, sono degli stratificati congegni a incastro, innervati da un segno nero e largo che delinea profili e relazioni tra forme, marca gli appezzamenti di colore tra figure e sfondo, sottolinea snodi e giunture: sono totem di natura surrealista, costellati di spine, che si dilatano fino a occupare tutto lo spazio della tela a loro disposizione.

Si sarebbe tentati di chiamare in causa il nume di Sutherland, ma in quegli anni il baricentro di Birolli era tutto spostato su Parigi: l’idea di una pittura sorretta da contorni spessi che chiudono le zone di colore come in uno smalto cloisonné rimonta alla seconda École de Paris, da Pignon a Manessier, con cui, insieme a Morlotti, aveva stabilito un proficuo sodalizio.

Birolli, tuttavia, restava fedele alla natura e ai suoi colori, usando degli accordi di giallo e verde impensabili per i colleghi d’oltralpe: per concedersi uno spazio di astrazione più libero e visionario, sceglierà soggetti e scene notturne, dalle apparizioni umide e fluttuanti. Passato un anno, però, fra gli ulivi che irruppero nei suoi dipinti cominciò a divampare l’Incendio nelle Cinque Terre: quel procedimento di campiture a incastro, ora, consentiva di unire un colore vivace con accenni antinaturalistici e la regolarità dei tocchi di colore paralleli insegnati da Cézanne.

Nei pastelli a cera, anzi, si assiste a una scomposizione dei colori in unità singole, come se ciascun segno dovesse occupare un proprio spazio specifico senza farsi toccare o contaminare dalle cromie circostanti. La via di una struttura aperta, però, era stata definitivamente imboccata: se nel 1954 il segno dava corpo a una fantasmagoria rurale, ora andava a strutturare un’area compositiva in progressiva espansione.

Birolli non rinuncerà mai all’‘organizzazione’ del dipinto, ma il gesto si era fatto più libero, la scrittura sovrapposta e stratificata. L’immersione vegetale, nei secondi anni cinquanta, era ormai definitiva e irrinunciabile. E se il mondo annientato dall’atomica, ricordato nel piccolo foglio del 1946, era di arida terra gialla, ora, come recita una tela del 1957, Il mondo è verde.