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Bioplastiche, una truffa all’italiana

Siamo ormai abituati a gettare nell’umido i prodotti monouso in plastica compostabile. «Posate biodegradabili e compostabili», «Piatti green», «Imballaggio da gettare nell’umido»: sono le stesse etichette a chiedere ai consumatori […]

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 26 maggio 2022

Siamo ormai abituati a gettare nell’umido i prodotti monouso in plastica compostabile. «Posate biodegradabili e compostabili», «Piatti green», «Imballaggio da gettare nell’umido»: sono le stesse etichette a chiedere ai consumatori di mettere questi manufatti nella raccolta degli scarti alimentari. E così i cittadini credono di essere di fronte a un’opzione a «impatto zero» capace di decomporsi come la buccia di una mela. Peccato che la realtà sia ben diversa.

Stando all’ultima indagine della nostra Unità Investigativa, la maggior parte dei rifiuti organici in Italia finisce in impianti che non sono in grado di trattare i manufatti e gli imballaggi rigidi in plastica compostabile, che così finiscono in inceneritori o in discarica. Greenpeace Italia ha svelato l’ennesimo cortocircuito di questa presunta svolta green che, non a caso, è presente in pochissimi Stati europei. Nella maggior parte dell’Europa, infatti, è normale che i prodotti in plastica compostabile (quelli realizzati, parzialmente, modificando chimicamente polimeri naturali derivanti, ad esempio, da canna da zucchero o mais) siano gettati nell’indifferenziato. Al contrario, in Italia si fa credere che la plastica certificata come compostabile secondo la Uni En 13432 non abbia alcun impatto sull’ambiente, ma non è così.

Stando ai dati del Catasto rifiuti di Ispra, nel nostro Paese il 63% della frazione organica è inviata in impianti che difficilmente riescono a degradare la plastica compostabile. E il restante?

Confluisce in siti di compostaggio dove non è detto che resti il tempo necessario a degradarsi, rappresentando un problema. Dati alla mano, tutti gli impianti contattati da Greenpeace Italia segnalano problematiche nel trattare questi prodotti, che nella maggior parte dei casi sono separati dai rifiuti organici non appena arrivano in impianto. «Il nostro è un problema tecnico: per legge dovremmo accettare umido e plastica green, eppure nei nostri impianti le plastiche compostabili non degradano», ci ha spiegato un imprenditore del Nord. Anche Montello, l’azienda bergamasca che tratta il 16% dei rifiuti organici prodotti in Italia, segnala problemi.

Le criticità evidenziate nell’inchiesta sul conferimento di manufatti in plastica compostabile a fine vita nel resto d’Europa si basano su quanto dichiarato da esperti che rappresentano gli interessi dell’industria di settore. Tra gli intervistati c’è anche Carmine Pagnozzi, direttore tecnico di Biorepack. E’ lui a raccontarci che in alcuni impianti gli imballaggi in bioplastica sono vittime del processo di vagliatura, necessario ad eliminare i materiali non compostabili che finiscono nella frazione organica. Peccato però che in questo modo, insieme ai materiali non conformi, la vagliatura porti via anche l’umido, fino a un terzo, nonché le bioplastiche.

A distanza di tre giorni dalla pubblicazione dell’inchiesta, Biorepack (il consorzio che gestisce il riciclo degli imballaggi in plastica compostabile) e Assobioplastiche (la principale associazione del settore), hanno acquistato spazi sui quotidiani per provare a confutare quanto svelato nel report. Per esempio, le due associazioni hanno contestato a Greenpeace di non menzionare la questione shopper. Da quanto emerge dalla nostra inchiesta, gli shopper non rientrano tra i manufatti con problemi di degradazione negli impianti, che interessano invece manufatti e imballaggi rigidi (una frazione oggi minima se confrontata al totale dei rifiuti organici ma che registra tassi di crescita a tre zeri negli ultimi anni). Greenpeace riconosce la bontà della legge sugli shoppers, proprio perché non prevede la sostituzione uno a uno e la cessione gratuita del sacchetto, privilegiando l’opzione riutilizzabile. Al contrario, le deroghe ed esenzioni inserite nel recepimento della direttiva europea sulle plastiche monouso (Sup) per i prodotti messi al bando (stovigliame), diventano un concreto rischio derivante dalla semplice e massiva sostituzione dei materiali. A nostro avviso, infatti, le esenzioni sono troppo ampie e poco circoscritte: c’è il rischio che si continui a utilizzare il monouso in tutti quei casi dove si impiega anche oggi. Dello stesso avviso è anche l’Europa. La scelta dell’Italia di incentivare la semplice sostituzione dei materiali ci espone a un doppio rischio: mantenere il nostro sistema industriale ancorato a logiche produttive basate sul monouso e causare un danno alle casse pubbliche. Siamo di fronte a un greenwashing di Stato, che si trasforma in una truffa nei confronti della collettività.

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