Serve raccontare la storia del biologico? «La prima e forse la più importante ragione ideale è fornire di radici storiche il movimento biologico, che non è un settore economico come un altro ma un originalissimo impasto di cognizioni scientifiche e di valori umanistici, di concezioni alternative del mondo e di progetti per assetti futuri della società». Così scrive lo storico Piero Bevilacqua nella sua appassionata prefazione al libro La storia del biologico – Una grande avventura (Jaca Book, euro 18) di Alberto Berton che da oltre 20 anni si occupa di questo settore ed è membro del comitato di redazione di Altronovecento, la rivista telematica fondata da Giorgio Nebbia presso la Fondazione Micheletti di Brescia.

Berton, a quando dobbiamo far risalire l’inizio del biologico?

Possiamo dire, semplificando, al 1924, l’anno in cui si tenne a Koberwitz, in Polonia, una serie di conferenze sull’agricoltura del pensatore austriaco Rudolf Steiner. Ma il 1924 è stato anche l’anno della fondazione a Indore, in India, dell’Institute of Plant Industry, dove l’agronomo inglese Albert Howard studiò e definì la tecnica del compostaggio dei prodotti di scarto dell’agricoltura ai fini della ricostituzione della fertilità del suolo. Rudolf Steiner è stato il fondatore dell’agricoltura biodinamica, mentre Albert Howard dell’agricoltura organica.

In che contesto operavano Steiner e Howard?

Queste due persone provenivano da contesti molto diversi: Steiner, dalla cultura tardo-romantica dei paesi di lingua tedesca tra l’Ottocento e il Novecento; Howard, dall’ambiente delle università e della ricerca in agricoltura dell’impero britannico del primo Novecento. Sono approcci diversi, uno più spirituale e l’altro più scientifico, tra i quali emersero immediatamente contrasti che furono poi progressivamente risolti: prima con la fondazione nel 1946 di Soil Association – la storica associazione inglese per l’agricoltura biologica – e poi con la fondazione nel 1972 di Ifoam, la Federazione internazionale dei movimenti per l’agricoltura biologica. L’elemento unificatore tra i due padri fu la comune coscienza ecologica.

In Italia quando prende piede il biologico?

La storia del biologico in Italia la possiamo fare iniziare negli anni Trenta del secolo scorso con gli studi sulla circolazione e la trasformazione della materia organica nell’azienda agricola dell’agronomo modenese Alfonso Draghetti, direttore della Stazione sperimentale agraria di Modena, allora il più importante istituto di ricerca in agricoltura in Italia. Nel suo testo del 1948, Principi di fisiologia dell’azienda agraria, contrappose in modo chiaro la «concezione biologica» dell’azienda agraria, basata sull’utilizzo delle risorse rinnovabili del suolo, e la «concezione economica», basata sull’utilizzo di input non rinnovabili acquistati sul mercato. Vent’anni più tardi, la concezione di Draghetti venne ripresa dall’agronomo Francesco Garofalo, fondatore nel 1969 a Torino dell’Associazione Suolo e Salute.

I pionieri del biologico nel nostro Paese erano considerati dei «poveri visionari». Poi cosa è successo?

Draghetti negli anni Trenta e Quaranta non venne certo considerato un visionario. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, di fatto, fu però un perdente: il suo messaggio verso una concezione «più biologica» dell’azienda agraria non venne recepito e fu presto dimenticato. Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, l’agricoltura biologica, estromessa per lungo tempo dalle università e dalla ricerca, venne riscoperta e si sviluppò all’interno di quella controcultura giovanile che, a partire dalla California, pose per la prima volta l’ecologia a fondamento di una nuova coscienza del mondo. Furono quelli di questa generazione a essere considerati dei poveri visionari. Peccato però che poi questi giovani, grazie anche all’assistenza tecnica di figure come quella di Garofalo, riuscirono a sviluppare una nuova economia, in gran parte basata sulla cooperazione, che si dimostrò fiorente. In Italia come altrove, lo sviluppo del mercato del biologico nel corso degli anni Ottanta, fu seguito dal processo di regolamentazione da parte della Comunità europea degli anni Novanta. Il biologico ha così progressivamente riacquisito dignità presso le istituzioni scientifiche e politiche.

Una delle critiche era, ma a più riprese ritorna anche oggi, che con il biologico non si possono ottenere produzioni sufficienti per sfamare i milioni di persone che soffrono la fame nel mondo…

Oggi 800 milioni di persone nel mondo soffrono la fame a prescindere dell’agricoltura biologica che purtroppo interessa solo una parte minoritaria della superficie agricola mondiale. Il problema come sappiamo non è tanto la quantità prodotta, ma lo spreco di risorse naturali e alimentari in un sistema sempre più competitivo e orientato dal profitto, evidentemente incapace di una redistribuzione minimale degli alimenti prodotti.

Una donna che ha giocato un ruolo importante nel successo del settore?

Un ruolo importante lo hanno giocato Gabrielle Matthaei ed Eve Balfour. La prima, moglie e collaboratrice di Albert Howard, intuì l’importanza di orientare la ricerca, proprio ai fini dell’aumento della produzione, oltre che sul miglioramento genetico delle piante anche sul rapporto, prettamente ecologico, tra piante e suolo. Balfour, invece, prima promosse la creazione di Soil Association e poi di Ifoam.

Le difficoltà più grandi che il biologico ha dovuto affrontare nel corso degli anni?

Uscire dalla condizione di marginalità a cui era stato relegato sia a livello di formazione, ricerca, pratica, politica.

Lei racconta nel libro anche di contraddizioni. Quali?

I casi eclatanti di frode e la convergenza del biologico verso un sistema agro-alimentare sempre più industrializzato, finanziarizzato e globalizzato, con squilibri evidenti…

C’è chi vorrebbe farlo diventare un settore economico come tutti gli altri, legato in maniera strettissima alle leggi del mercato. Cosa ne pensa?

Occorre tenere in considerazione che la creazione di un mercato dei prodotti biologici ha rappresentato la strategia di sviluppo del movimento biologico stesso dagli anni Settanta in poi. Si tratta della fase che Ifoam chiama Biologico 2.0 e che in qualche modo stiamo ancora vivendo. È chiara da diversi anni l’esigenza di un Biologico 3.0, ovvero di una nuova fase di sviluppo volta a fare uscire questo settore dalla sua dimensione «esclusiva di mercato» per riposizionarlo tra le soluzioni capaci di fronteggiare le accelerate problematiche ambientali e sociali.

Non ci sono sempre stati rapporti facili con la scienza ufficiale e con le biotecnologie in particolare… Il suo pensiero?

Io credo che siano in gioco paradigmi scientifici diversi e interessi economici contrastanti. L’ecologia del resto è stata per lungo tempo vista come una scienza eversiva. Le biotecnologie, come le nuove basate sul genome editing e la cisgenesi, si basano secondo me su una visione che ha ben poco di ecologico.

Il pericolo più grande, e immediato, per il biologico?

Penso che il pericolo più grande e immediato per il biologico sia la sua riduzione a un bene di lusso, un bene di consumo superfluo e inaccessibile.